di Ottorino Gurgo
Il Pd si avvia mestamente al congresso che dovrà eleggere il suo nuovo segretario in sostituzione di Enrico Letta che ha annunciato di non voler riproporre la propria candidatura alla guida del partito.
Il dibattito svoltosi recentemente nella riunione della direzione ha tuttavia chiaramente confermato che il Pd non ha superato la frustrazione per la sconfitta subita nelle elezioni dello scorso 25 settembre e cosicché il congresso non potrà limitarsi a eleggere un leader, ma dovrà fare molto di più: dovrà cioè ridare finalmente al partito un'identità che sembra aver smarrito e ridare ai militanti quella carica e quell'entusiasmo che sono assolutamente indispensabili per una forza politica e delle quali, tra gli iscritti non si riesce più a scorgere alcuna traccia.
Per quel che concerne il nome del nuovo segretario è certamente ancora presto per formulare ipotesi attendibili anche se, nei corridoi, durante la riunione della direzione i più non esitavano ad affermare che, molto probabilmente si tratterà di una sfida tutta emiliana che vedrà in campo l'attuale presidente della Regione Emilia Romagna Stefano Bonaccini e la sua vice Elly Schlein (anche se le voci dell'ultima ora danno ancor in corsa l'ex ministro degli Affari europei Enzo Amendola e il sindaco di Firenze Dario Nardella).
Va tuttavia rilevato che mai come questa volta la questione del nome di colui (o colei) cui spetterà l'ingrato compito di subentrare a Enrico Letta può avere un'importanza minore rispetto alla scelta dell'identità del partito. Alla domanda su cosa sia il Pd, verso quali obiettivi tenda e come e con chi si proponga di realizzarli è oggi, infatti, estremamente difficile rispondere,
Il Pd ha di fronte a sé due strade. La prima, e probabilmente la più "comoda" è quella tendente a ristabilire un rapporto di alleanza con i cinquestelle di Giuseppe Conte. Si pensava che il leader pentastellato sarebbe uscito a pezzi dal confronto elettorale, ma così non è stato.
Certo il suo partito è apparso fortemente ridimensionato rispetto alle elezioni del 2018. E tuttavia ha portato a casa un pacchetto di voti che gli consentono di sopravvivere. Vale peraltro per Conte quel che Palmiro Togliatti disse a Giancarlo Pajetta quando, dopo uno degli scontri con la polizia a Milano, gli telefonò raggiante per annunciargli di aver occupato la prefettura del capoluogo lombardo. "Bravo - gli disse gelido Togliatti con il suo cinico realismo - ma adesso che te ne fai?".
Che ne farà Conte dei suoi voti? Il personaggio è talmente spregiudicato da allearsi indifferentemente -lo ha dimostrato nella scorsa legislatura- sia con il centrodestra, sia con il centrosinistra, ciò potrebbe indurre il nuovo vertice del Pd ritornare alla vecchia alleanza. Ma il successore di Letta commetterebbe, alleandosi nuovamente con i cinquestelle, un micidiale errore perché imboccherebbe una strada senza vie d'uscita.
La "missione" che il Pd ha il dovere di compiere è quella di ricostruire l'unità delle forze alternative al terzetto Meloni-Salvini-Berlusconi che lo ha clamorosamente sconfitto nelle ultime elezioni, per dar vita ad una grande forza riformista moderna, capace di essere un reale contraltare dei vincitori di oggi.
Riuscirà in questa impresa il successore di Enrico Letta? Non è facile. Ma è un compito ben più esaltante di quanto non sia il ritorno a una sterile e asfittica alleanza con Conte e la sua sfrenata ambizione.