di Pietro Salvatori

"Da Giorgia Meloni ci aspettiamo lo stesso sostegno ricevuto da Mario Draghi", dice l'ambasciatore ucraino in Italia Yaroslav Melnyk, gli risponde indirettamente Fabio Rampelli, fresco di elezione alla vicepresidenza della Camera: "Tutto il centrodestra sostiene Kiev, è il programma con il quale siamo stati eletti".

Ogni giorno che passa la composizione dell'esecutivo subisce un terremoto. Fino a quarantott'ore fa la Giustizia sembrava essere la principale pietra dello scandalo. Dopo gli audio in cui Silvio Berlusconi ha rilanciato davanti alla platea plaudente dei suoi parlamentari le tesi della propaganda di Mosca, tutto è tornato avvolto nella nebbia. La nomina a ministro degli Esteri per Antonio Tajani, che sembrava ormai scolpita nel marmo della Farnesina, torna nel mare aperto dei veleni e dei sospetti.

Lui, Tajani, è corso a Bruxelles a incassare il sostegno del Partito popolare europeo, sponda fondamentale in questi giorni incerti, ha twittato il proprio sostegno all'Ucraina contraddicendo clamorosamente Berlusconi, anche se gli azzurri dicono che no, non è così, Silvio è stato frainteso, e come no. Voci impazzite riferiscono di contatti tra Meloni e il Quirinale, ovviamente, ma anche tra la futura premier e l'ambasciata americana: "Sono io la garante della collocazione atlantica dell'esecutivo – va ripetendo ai suoi – su questo mi gioco la credibilità".

A nessuno sfugge la portata del problema. Se il centrodestra riuscisse a varare la squadra entro domenica, come nelle intenzioni della leader di Fratelli d'Italia, si aprirebbero le possibilità per un incontro con Emmanuel Macron, in visita fino a lunedì nella capitale. L'occasione per allacciare un rapporto dopo anni di endorsement a Marine Le Pen, di una photo-opportunity che collochi Meloni plasticamente al fianco degli alleati occidentali, nel cuore dell'Europa.

Gli staff sarebbero già in contatto, un laborioso e discreto lavoro preparatorio lontano dai riflettori per non incorrere in sgarbi istituzionali. Un incontro che diventa un campo minato dopo le parole del cavaliere. Basta dare un'occhiata a Le Monde, tra i principali quotidiani d'oltralpe: "Quelle parole potrebbero minare seriamente la credibilità dell'Italia sulla scena europea, mentre Giorgia Meloni ha sempre fatto del suo sostegno all'Ucraina e alla Nato una linea forte nel suo programma politico".

Il livello di rabbia e frustrazione a via della Scrofa è al limite dall'esplodere, e anche per questo la consegna è di non alimentare polemiche e scontri con gli alleati, rinfocolate dal pranzo di ieri a Villa grande tra Berlusconi e Matteo Salvini, nelle inedite vesti da mediatore, ma che sul conflitto ucraino è sicuramente più vicino al leader azzurro. "Ma tu ci pensi che ogni volta che Tajani andrà in giro per il mondo, la controparte avrà un dossier in mano che lo descriverà come il braccio desto del miglior amico di Putin?", si chiede stupefatto un dirigente meloniano.

E così Tajani è tornato nel frullatore, complice anche una caduta verticale nel borsino di Palazzo di Adolfo Urso alla Difesa, rimesso in discussione da voci impazzite che hanno iniziato a circolare dalla serata di ieri.

Ma no, Urso non andrà agli Esteri, non ci sarà un'inversione con Tajani, assicurano da Fratelli d'Italia. Piuttosto la carta di riserva potrebbe essere quella di un tecnico considerato d'area, primo tra tutti Giampiero Massolo, un passo più indietro l'ambasciatore Stefano Pontecorvo, "l'eroe" dell'evacuazione di Kabul. Più facile che lo switch ci sia con Guido Crosetto, al momento destinato allo Sviluppo economico, anche se gli impegni del fondatore di Fdi in un'agenzia che si occupa di aerospazio lasciano qualche dubbio sull'opportunità di prestare il fianco a polemiche sul conflitto d'interesse.

Voci e ipotesi che intorbidano le acque, spin che si incrociano, false piste, polpette avvelenate, diffidenza totale tra gli alleati. Non nasce sotto i migliori auspici il governo Meloni ma, al di là della nebbia, gli scossoni degli ultimi giorni potrebbero infine lasciare inalterato il quadro nei due ministeri della discordia. E dunque niente Elisabetta Casellati ma Carlo Nordio alla Giustizia, con Tajani che resta dove è sin dall'inizio. Le intemerate di Berlusconi ne hanno ulteriormente fiaccato la posizione negoziale, l'incontro che ha avuto con l'ex magistrato ieri è stato "cordiale", come da poca fantasiosa nota di rito, ma da lui non avrebbe avuto nessuna rassicurazione su eventuali modifiche alla legge Severino: "Le priorità sono altre".

Il via libera a Tajani sarebbe invece a un passo. Sono due le ragioni principali. La prima, e più banale, è quella che far saltare il più pesante dei dicasteri promessi agli azzurri e a Berlusconi in persona rimetterebbe tutta la partita in alto mare, con conseguenze imprevedibili. La seconda è che a via della Scrofa mettono in conto che, presto o tardi, Forza Italia imploderà, il contrasto tra falchi e governisti che è infiammato ancor prima che ci fosse un governo potrebbe portare a una frammentazione. E allora meglio tenersi vicine e gratificate le colombe, dargli forza dentro il partito, creare dei contenitori (i gruppi di Noi Moderati e del Maie al Senato e in costituzione alla Camera) come valvola di sfogo per l'uscita dal partito e la permanenza in maggioranza. Isolare quanto più possibile Berlusconi, e con lui la plenipotenziaria Licia Ronzulli, per tenere saldi i numeri della maggioranza quando succederà. Dice un onorevole meloniano che "Tajani potrebbe essere il leader del nuovo Nuovo centrodestra", ridacchia ma è alquanto serio.

A Villa grande Berlusconi prepara il suo ritorno al Quirinale, i suoi consiglieri gli stanno suggerendo di tenere un profilo basso, di condurre in porto la nave del governo e poi si vedrà. I tre leader si vedranno di sicuro al Colle, un vertice a tre per siglare l'accordo è in ballo da ieri, non c'è ancora stato e forse non ci sarà mai. "Questa partita è da chiudere in fretta", ribadisce una preoccupatissima Meloni. A costo di avocare a sé le scelte più spinose.