di Marco Benedetto

A Genova la violenza fascista si esplicò anche e ben dopo la marcia su Roma, quel 28 ottobre 1922. Nel suo libro L'anno del Fascismo, in libreria in giorni, Ezio Mauro ricorda l'assalto al quotidiano socialista Il Lavoro. (Riporto sotto il passo).

La marcia su Roma fu solo l'inizio di tre anni di violenze che accompagnarono la fastiscizzazione dell'Italia. Luigi Salvatorelli, sulla Stampa di Torino, lo aveva previsto tutto fin dal 1921.

Ma la stupidità dei partiti moderati e della sinistra, e un po' anche la paura delle violenze dei rossi, spalancarono le porte a Mussolini Poi olio di ricino, manganello e leggi adeguate compirono il resto. Il culmine fu l'uccisione di Giacomo Matteotti. Poteva essere la fine del Fascismo. Ma per l'incapacità degli antifascisti e la criminalità del re Savoia, si andò avanti per altri 20 anni.

Oggi non ci sono certo le condizioni di un secolo fa e nemmeno quelle degli anni '60 e '70. Ma la storia non sempre ritorna con lo stesso abito e la stessa maschera, mentre la stupidità della sinistra la tocchiamo con mano da 30 anni. Genova non ha mai amato Mussolini e i fascisti.

Mia nonna paterna mi raccontava, pochi anni dopo il 25 aprile, di una visita di Mussolini a Genova in cui Il Duce si esibì poco in pubblico, sfilando in auto coperta. Perché, spiegava mia nonna, "Mussolini aveva la faccia sporca".

Un episodio simbolo di quella catena di violenze che sporcarono la faccia a Mussolini fu l'aggressione, nel 1926, all'avvocato socialista Francesco Rossi e ai suoi due figli, Paolo e Enzo. La loro abitazione-studio in via Roma, la più elegante e classica di Genova, fu invasa dagli squadristi. Buttarono mobili e arredi dalla finestra, anche il pianoforte e diedero fuoco a quel che restava.

Il dettaglio del pianoforte colpi molto i genovesi, più ancora della aggressione in se. Se ne parlava ancora nel dopoguerra, quando Paolo Rossi, che sarebbe poi diventato presidente della Corte Costituzionale e arrivato a un passo dalla Presidenza della Repubblica, era ministro della pubblica istruzione.

Suo nipote Francesco, uno dei miei più cari amici da quando avevamo 14 anni, in quei tempi frequentava il liceo Colombo, il vero liceo dei genovesi, as opposed al Doria, la scuola di quelli di Albaro, i pariolini locali, di cui sono esemplari Massimo D'Alema e Alessandro Profumo. L'allievo più illustre del Colombo fu indubbiamente Giuseppe Mazzini, nato e cresciuto dall'altro lato di piazza della Zecca. Immaginatevi cosa voleva dire avere lo zio ministro dell'istruzione negli anni '60. Il mio amico non terminò mai il suo percorso scolastico.

La rievocazione di Mauro dell'assalto al Lavoro è nel capitolo dedicato al mese di marzo. Gli squadristi sfondano la porta, urlano "basta", "schifo", "venduti", rompono i vetri, rovesciano i tavoli, imbrattano i muri, frantumano il quadro elettrico. Un gruppo, all'esterno, sta svitando la targa del giornale. La portano via, simbolo della libera stampa trasformata in bersaglio, ridotta in cenere nei falò del fascismo, mentre si allontanano intonando Giovinezza tra le famiglie che rientrano a casa, e che si scansano.

Se ne vanno cantando, esaltati dall'impresa, passandosi di mano in mano la vecchia insegna del Lavoro che sollevano come un trofeo di guerra davanti ai passanti silenziosi della domenica sera, nel centro di Genova.

La sede del giornale era in salita Di Negro, a poche decine di metri dal cinema oggi Sivori dove si tenne, fra il 14 e il 15 agosto 1892, il congresso fondativo del partito socialista.

Dopo la guerra ne fu direttore dal 1947 al 1968 Sandro Pertini, il futuro Presidente della Repubblica. Gli anziani ancora ricordano la sua pausa caffè al bar Mangini, nella vicina piazza Corvetto. Durante il Ventennio ospitò firme illustri come Giovanni Ansaldo, Gianni Granzotto, Guido Coppini.

Il giornale, negli anni '60, vendeva circa 45 mila copie. Sotto Pertini c'era un bravissimo Umberto Merani, critici come Tullio Cicciarelli, amici come Ermes Zampollo e, il più caro di tutti, Mimmo Candito.

La diffusione calo fino a 15 mila copie un po' per la progressiva estinzione dei vecchi operai socialisti, un po' perché il maggiore Secolo XIX schizzò da 80 a oltre 130 mila copie sotto la direzione di Piero Ottone (1968-1972).

A quel livello era nel 1987 quando lo Stato dispose una serie di provvidenze a favore dei quotidiani che mi indussero in tentazione per una iniziativa proprio con il Lavoro. All'epoca lavoravo nell'allora Gruppo Espresso oggi Gedi.

Non fu un'idea baciata dal successo fino a quando non ne ebbi una risolutiva. Ero un po' disperato. Ogni volta che andavo a rapporto dagli azionisti, nessuno badava ai 100 miliardi di lire di utile di Repubblica ma ai 5 di perdita del Lavoro.

L'idea che mi salvò, e con me salvò una cinquantina di posti di lavoro fu quella di trasformare Il Lavoro nella edizione ligure di Repubblica.

Anche in quei tempi i grandi giornali come il Corriere, la Stampa e Repubblica vendevano a Genova poche migliaia di copie. L'incorporazione del Lavoro portò d'un balzo Repubblica a oltre 15 mila copie, contribuendo al record di 700 mila copie vendute nella estate del 1993.

In autunno, con un calo di ben 100 mila copie secche, ebbe inizio il declino. Da che vendeva più del Corriere della Sera, oggi Repubblica vende la metà. Lo aveva previsto, in quella estate di trent'anni fa, un analista finanziario milanese. La causa: l'avvento di una delle mutazioni del Pci al governo; la trasformazione di Scalfari da giornalista di opposizione a profeta della sinistra.

Vicino alla vecchia sede del Lavoro, ormai abbandonata, ci sono gli uffici della Provincia di Genova. In un salone della Provincia, qualche anno dopo, il nuovo direttore di Repubblica, Ezio Mauro, firmò la donazione alla Provincia della intera collezione del giornale.

Così si chiude il cerchio dei ricordi personali, cittadini, nazionali.Se ne possono trarre tante lezioni. Una è che non si deve mai abbassare la guardia, nemmeno davanti alle tue stesse idee e al tuo partito, se ne hai uno. E ai politici, tutti. Ricordate cosa diceva Rino Formica della politica?