di Alfredo Luís Somoza

Dopo anni di caos, il mondo sembra avviarsi verso un nuovo ordine. Le elezioni di midterm che hanno rafforzato Joe Biden negli Stati Uniti, il ritorno del Brasile tra i protagonisti globali, lo stallo del conflitto ucraino-russo e la continuità al potere di Xi Jinping in Cina lasciano intuire che sta iniziando una nuova fase nel tormentato scenario internazionale, messo a dura prova dalla pandemia e dal ritorno dei conflitti che coinvolgono potenze nucleari.

Il tutto si può sintetizzare nel discorso che Biden ha pronunciato davanti al leader cinese a margine del G20 di Bali, quando ha affermato che “come leader delle principali economie del mondo, dobbiamo gestire la competizione dei due nostri Paesi”. Da un lato, si è appellato alla Cina perché cessi la competizione, ormai arrivata sull’orlo della guerra commerciale, che in realtà è stata iniziata da Donald Trump. Dall’altro, ha riconosciuto a Pechino lo status di unica potenza mondiale con la quale gli Stati Uniti si devono misurare. Si potrebbe dunque concludere che un nuovo bipolarismo sia alle porte, ma bisogna essere cauti. Anzitutto, qui non si parla di equilibrio militare: su quel piano, la Cina è lontana anni luce dal poter essere considerata un vero rischio per gli Stati Uniti, come invece lo fu l’Unione Sovietica. Soprattutto, Cina e USA sono fortemente legati tra loro da rapporti commerciali e finanziari costruiti nei decenni precedenti. Nella lunga storia delle potenze mondiali, mai si erano visti due Paesi così vicini economicamente e così lontani politicamente. Ma questa è la complessità e la contraddizione dell’odierna globalizzazione: pur restando politicamente molto distanti si può vendere e comprare lo stesso, e consumare lo stesso. Proprio questo è stato il quadro definito dal discorso di Xi Jinping durante l’incontro con Biden: possiamo essere soci commerciali, possiamo anche lavorare per la pace nel mondo e cercare insieme una soluzione ai cambiamenti climatici, ma non sono permesse critiche né intromissioni nella politica interna di ciascuno. Questo significa che Washington non deve interferire su Hong Kong, deve dimenticare gli uiguri che Pechino “rieduca” in campi di concentramento e non spingere Taiwan sulla via dell’indipendenza, perché l’isola prima o poi tornerà nella madrepatria.

Xi Jinping propone quindi una rilettura aggiornata dei rapporti tra statunitensi e sovietici durante la Guerra Fredda. All’epoca, quando le due potenze discutevano di disarmo, non parlavano di ideologie, ma solo di missili. Pechino vorrebbe ora che, quando Stati Uniti e Cina parlano di commercio, si discutesse solo di dazi e non di diritti umani. Questa impostazione pragmatica contraddice però la linea perseguita negli ultimi anni dalla politica estera di Washington. Se verrà accettata, come lascia intuire il discorso di Biden, si toglierà dal tavolo il tema – o meglio, l’alibi – finora usato per fare pressione sulla Cina, quello dei diritti umani. La questione dei diritti, infatti, non interessava più di tanto nemmeno prima, ma serviva a rafforzare la posizione negoziale americana. Se i rapporti tra i due Paesi saranno schietti, come chiesto da Xi Jinping, sulle violazioni cinesi dei diritti umani calerà un velo di silenzio, in patria e all’estero. Non è certo una bella cosa, anche se eliminerebbe l’uso ipocrita del tema, brandito contro l’avversario come una clava ma rispettato solo a giorni alterni.

Il nuovo ordine internazionale che potrebbe nascere dall’indiscutibile supremazia di Stati Uniti e Cina nega, per la prima volta, un ruolo da protagonista all’Europa, aggrovigliata nei suoi problemi, mentre è destinato ad accrescere il peso di alcune potenze regionali come Turchia, Indonesia, Brasile e, malgrado il conflitto, Russia. Quello che si stabilirà sarà infatti un equilibrio con due poli centrali, Cina e Stati Uniti, e una serie di satelliti, i Paesi del G20. Sarà l’ultima tappa del declino dell’Occidente, al quale resteranno solo gli Stati Uniti come simbolo, in un contesto globale più plurale da tutti i punti di vista: la pretesa superiorità di una parte del mondo rispetto all’altra sarà una questione del passato, relegata nei manuali di storia.