PORTOFRANCO

DI FRANCO MANZITTI 

 

Rivedere Aldo Moro, secondo Marco Bellocchio e il suo genio di grande regista, precipita indietro di cinquant'anni in una Italia così diversa, in una politica così diversa, in una angoscia forte così dissimile di quella di oggi, bellica e pandemica.

Chi ha lavorato come me sul terrorismo  degli anni Settanta e Ottanta in Italia e nel mondo e ha conosciuto quella politica là di Moro, Andreotti, Zaccagnini, Cossiga, Taviani, della Balena Bianca, della Dc, la sua immensa storia, si tuffa indietro e recupera con le ore del film “Interno Notte”, distribuito nelle sale e trasmesso in Tv, un mondo del quale aveva conservato brandelli di memoria, diciamo pure di nostalgia oppure di repulsione, a seconda delle sue idee.

Rivedere Aldo Moro in una interpretazione super del famoso Gifuni, probabilmente il miglior attore italiano di oggi, dopo avere anche letto le pagine di un gran libro come quello di Marco Follini “Via Savoia”, la strada dell’ufficio del capo Dc, pubblicato pochi mesi fa, è  come entrare in un altro mondo, che è stato il nostro per decenni difficili e appassionanti di una politica profonda, complessa, quasi riservata e di un terrorismo segreto, audace che sbucava dal buio e colpiva sempre più in alto.

E alla fine si scopre con il senno di poi, anche grazie a ricostruzioni impattanti come questa, che quel pericolo terribile per la Democrazia, le Istituzioni, gli equilibri politici mondiali, nella guerra fredda del Novecento, era circoscritto, ridotto a poche centinaia di rivoluzionari molto a sè stanti, ma abilissimi, organizzatissimi, finanziati soprattutto dalle azioni che compivano, i sequestri, le rapine.

Moro fu rapito con il miliardo e mezzo del riscatto pagato dalla famiglia Costa per ottenere la liberazione di Piero, sequestrato a Genova un anno e tre mesi prima del leader Dc.

Ma prima della dimensione terroristica il film, che sta appassionando soprattutto chi ha memoria di quel tempo, presenta lo spaccato politico che stava dietro alle azioni delle Br e le ispirava.

Non a caso il documento del film incomincia con il discorso che Moro fa davanti all'assemblea Dc per convincere il suo partito a votare l’ingresso del Pci nella maggioranza di governo.

E’ il giorno prima del sequestro e Gifuni rappresenta un Moro perfetto perfino nel tono della voce, nella infinita capacità del ragionamento politico, che avvolge anche i suoi numerosi avversari interni, dentro alla mitica sede Dc di Piazza del Gesù.

Si riconoscono bene Andreotti, Zaccagnini e soprattutto Cossiga, che avrà una parte fondamentale nelle vicende del sequestro per il suo ruolo di responsabile del Ministero degli Interni.

Moro va incontro alla sua tragedia quasi velocemente, mostrando le sue capacità politiche, ma anche le sue fragilità umane e familiari. Roma, la sua casa, la sua famiglia sono rappresentate quasi sempre in una oscurità presagio della sciagura che sta per abbattersi.

Perfino la sua ipocondria viene raffigurata efficacemente, insieme alla febbre politica di concludere quell’accordo storico che gli costerà la vita.

Sull’altro fronte le Br, questo pianeta di cui così poco conoscevamo allora e che avremmo scoperto solo dopo e anche grazie ai pentiti, sono descritte minuziosamente.

Non solo nella perfezione della agghiacciante azione militare di via Fani, durante la quale Moro viene strappato dall’auto mentre la sua scorta è massacrata a colpi di mitra dal commando terrorista. Ma anche nella preparazione dell’agguato, nella impermeabilità della colonna che compie l’azione. Sono guerriglieri urbani, allenati, clandestini, preparati a colpire, a assassinare, eppure la loro azione è come venata ininterrottamente dal dubbio sull’esito finale.

Vogliono dimostrare il fallimento della Dc e del sistema politico italiano, capitalista, atlantico, corruttore, vogliono dimostrare che solo loro rappresentano la classe operaia e per fare questo processano e condannano il leader democristiano, il “cavallo di razza”, il cattolico iper credente, che è amico intimo di un sofferente papa Montini, il Paolo VI, interpretato magistralmente da Toni Servillo.

Ma hanno veramente dietro il popolo o sono una monade isolata che agisce nel vuoto? Il tarlo martoria i terroristi e separa le loro anime e le loro azioni, i loro quotidiani comportamenti di carcerieri, Valerio Morucci, Faranda, Mario Moretti, Prospero Gallinari, gli altri e le altre, nomi che per noi cronisti dell’epoca erano senza volto, ectoplasmi del terrore, vengono raccontati doviziosamente nel loro processo rivoluzionario, nella separazione delle loro vite personali da quella di guerriglieri, impegnati in una delle azioni più clamorose della storia terroristica mondiale in tempo di pace: sequestrare l’uomo politico più importante di un Paese, tenerlo prigioniero nel cuore di Roma, processarlo, condurre una trattativa segreta, attraverso il Vaticano, ma anche attraverso altri interlocutori, tenendo sulla corda un paese intero per quasi sessanta giorni.

Tanti decenni dopo il paradosso che il film di Bellocchio svela nella sua precisione quasi cronachistica e nella capacità documentale è proprio quella: un paese, le sue istituzioni, perfino la Chiesa Romana con 2 mila anni di vita, gli equilibri mondiali, tenuti in sospeso da un centinaio di ragazzi tra i venti e i trent’anni, con una ideologia esasperata e quasi inesistenti appoggi internazionali che pensano di innescare una vera rivoluzione in Italia.

Ma di questo movimento, pronto a scatenarsi per rovesciare un regime autoritario e capitalista, nel film non si vedono che le proteste quasi puerili nell’aula universitaria dove Moro fa lezione o in qualche manifestazione di piazza con gli slogan triti e ritriti.

E allora il terribile dibattito interno alle Br, lo uccidiamo o lo liberiamo, vinciamo di più con una o con l’altra di queste soluzioni, smaschera perfettamente gli equilibri generali in gioco.

Perchè Moro ha pagato con la vita, perché è stato alla fine ucciso in quel modo con il suo corpo ripiegato in un bagagliaio, pagando un prezzo smisurato se la contropartita in pratica non esisteva? Anzi il suo immane sacrificio, cui nella storia seguirà quasi un anno dopo quello  dell’operaio genovese Guido Rossa, ucciso perché aveva denunciato i fiancheggiatori delle Br, avrà l’effetto contrario di indebolire fino a distruggere le Brigate Rosse, spazzarle via della storia.

Se fosse stata perseguita l’altra strada, quella di liberarlo dopo il processo e le lacerazioni dentro alla Dc e dentro al sistema politico italiano, Berlinguer per la fermezza, Craxi per la trattativa, cosa sarebbe successo in Italia alla fine degli anni Settanta?

La Dc si sarebbe dissolta, spaccata dal suo interno, come se ciò non sarebbe poi avvenuto quindici anni dopo per effetto di un fenomeno tanto diverso, come Tangentopoli, che cancellò quasi tutti i partiti italiani. Eccetto il Pci, trasformato dalla caduta del muro di Berlino e dalla fine del sogno comunista?

L’operazione del film non era certo quella di dare una risposta a queste domande, ma di raffigurare una delle più grandi tragedie italiane e di farlo con la pretesa non di una ricostruzione strettamente storica, ma con quella di un’opera drammatica di per se stessa.

Si spiega l’opposizione al film della famiglia Moro, soprattutto della figlia Maria Fida. Riportare a galla quel dramma, quelle sofferenze umane e politiche, sbattere in faccia a tutti l’uomo Moro, il suo martirio, è per i suoi cari un'ulteriore pesante afflizione. Insopportabile.

Ma per il resto, per gli altri è un contributo non solo di memoria, ma di riflessione sulla realtà che stava intorno a una tragedia, ai pericoli reali, alla dimensione autentica dei personaggi, che si muovevano sulla scena di quei “terribili anni di piombo”.

E in questo caso del piombo di via Fani e di via  Caetani, quella stradina tra Piazza del Gesù e via Botteghe Oscure, dove la Renault rossa con il cadavere crivellato fu fatta significativamente trovare.