di Gabriele Minotti

 

Non si placano le proteste in Iran. Al contrario, quella che era iniziata come una ribellione delle donne in seguito all’uccisione della giovane Mahsa Amini, colpevole di non aver indossato correttamente il velo, ha gradualmente coinvolto la parte più giovane della popolazione – perlopiù studenti – a sua volta scesa in piazza, fino a trasformarsi in una vera e propria insurrezione, ottenendo anche il sostegno del resto della cittadinanza, che si è unita alle proteste, alle manifestazioni e agli scioperi. Operai, pensionati, insegnanti, commercianti, impiegati, liberi professionisti, intellettuali sono tutti compatti nel chiedere la fine della dittatura khomeinista iniziata nel 1979.

Il regime risponde aumentando la repressione, punendo in maniera draconiana i ribelli nella speranza di intimorire la popolazione e di indurla così a “rientrare nei ranghi”. Sono già almeno una dozzina le condanne a morte emesse contro i manifestanti: alcune eseguite, come quelle dei due ventitreenni Mohsen Shekari e Majidreza Rahnavard, entrambi impiccati; e altre ancora da eseguire. Tra i condannati alla pena capitale anche nomi illustri, come quello dell’ex calciatore e attore Amir Nasr-Azadani. Tutti accusati dello stesso ridicolo reato dal regime fondamentalista islamico, quello di “inimicizia contro Dio”, fattispecie entro la quale i tribunali iraniani ricomprendono qualunque tipo di insubordinazione nei riguardi del regime: dall’aver ferito gli agenti della polizia religiosa durante gli scontri ad aver divelto cartelli stradali durante le manifestazioni, o anche solo all’aver preso parte alle proteste.

La situazione entra così nella sua fase più critica. Il fatto che il regime dell’ayatollah stia intensificando la repressione è segno del fatto che la situazione sta sfuggendo di mano alle autorità politico-religiose del Paese, coscienti di aver perso il controllo di una popolazione in rivolta che non si lascerà intimidire, che non cederà dinanzi a nessuna esecuzione e a nessuna sparatoria. Gli iraniani hanno capito che una vita diversa è possibile e che, se bisogna continuare a vivere nella morsa della tirannide come hanno fatto finora, allora forse la morte non è più una prospettiva tanto orribile. Gli iraniani hanno smesso di avere paura dei loro governanti: ora sono i governanti che iniziano ad avere paura di loro.

Era già successo, in passato, che la popolazione scendesse in piazza per chiedere delle riforme di tipo politico o economico: richieste cui il regime acconsenti, placando così il malcontento popolare prima che degenerasse e riuscendo così a conservare il potere. Stavolta, però, è diverso: la protesta unisce tutta la popolazione iraniana, di ogni età, ceto sociale ed etnia, e il suo obbiettivo non è una generica riforma, ma la fine della dittatura, il crollo della Repubblica islamica, il riconoscimento dei diritti e delle libertà civili finora negate, a partire da quelli delle donne. Si tratta di un movimento trasversale, privo di un leader, che parte dal basso e che ha come unico nemico il regime teocratico e la negazione della libertà. Tanto più il regime mostrerà il suo volto più feroce e violento, tanto più la spinta verso la libertà e il cambiamento acquisirà forza e vigore. Anzi, la storia dimostra che l’aumento della repressione è il preludio alla caduta delle dittature: è il segnale più evidente della loro debolezza e del loro imminente crollo.

Potranno impiccare altri cento, mille, diecimila manifestanti. Potranno continuare a sparare sulla folla disarmata. Potranno massacrare di botte altre ragazzine colpevoli di aver tolto il velo o di non aver rispettato la “moralità Islamica”. Non faranno altro che fomentare la rabbia e la voglia dei padri, delle madri, dei fratelli, delle sorelle, dei mariti, dei figli, degli amici delle vittime di abbattere il regime. Qualunque cosa faccia il regime, niente potrà fermare un popolo che ha capito – per usare le parole della blogger sedicenne Sarina Esmailzadeh, anche lei uccisa a manganellate dalle squadre islamiste il 23 settembre – che esiste tutto un mondo al di fuori dell’Iran e che gli iraniani hanno lo stesso diritto di vivere e di essere liberi degli americani o degli europei. Nemmeno la più spregevole delle efferatezze – alle quali di sicuro il regime ricorrerà – potrà arrestare la marcia di questo popolo destatosi dal “sonno della ragione” che ora vuole riappropriarsi dei suoi diritti.

L’Occidente deve sostenere questa lotta, moralmente e politicamente: non fosse altro che questa rivoluzione viene portata avanti in nome dei suoi valori. Deve farlo nella maniera in cui chiedono gli iraniani: interrompendo ogni rapporto con la Repubblica islamica, intensificando la pressione diplomatica e l’isolamento economico del Paese, smettendola di collaborare in qualsivoglia maniera con un regime criminale, cercando di fare in modo che anche gli altri Paesi facciano altrettanto. Il resto verrà da sé, grazie al sacrificio, alla resilienza e alla voglia di libertà degli iraniani.

Il regime ha i giorni contati e lo sa. In Iran, che gli islamisti lo vogliano o no, si inizierà presto a respirare un’aria nuova, pulita, fresca, profumata di libertà. Al contrario, perché mai i vertici del regime di Teheran avrebbero già pronto un piano di fuga in Venezuela, stando a quanto riportano le fonti diplomatiche occidentali riprese dal Daily Express?