di Franco Manzitti

Sono passati quattro anni, quattro mesi e 28 giorni dall'Apocalisse su quel ponte maledetto, che si spezzò e precipitò nel cuore di Genova, inghiottendo, con 250 metri di asfalto, 43 vite. Spezzando in due una città, cambiando l'orizzonte, non solo quello fisico.

E finalmente il processo contro 59 imputati, davanti ai giudici di Genova, per scoprire le responsabilità della tragedia e condannare i colpevoli di una delle più incredibili carenze della pubblica amministrazione: lasciare un ponte praticamente nuovo a marcire in mezzo alla sesta città italiana, è entrato nel vivo.

Sfilano nell'aula giudiziaria nel cuore di Genova, nelle giornate gelide di dicembre, i "sopravvissuti".

Quelli che erano sul ponte che crollava e non sono morti. O perchè hanno frenato la loro auto, capendo quello che stava succedendo e sono scappati con i bambini in braccio, correndo indietro. O perchè la improvvisa coda all'uscita della galleria, che immetteva su quello "storico" Morandi, dagli stralli alti 100 metri, a 60 metri da terra, un gioiello dell'architettura anni Sessanta, soprannominato dagli abitanti sottostanti " il nostro ponte di Brooklin", li ha fermati pochi metri prima del crak.

O perchè sono miracolosamente rimasti appesi per ore con i resti della loro macchina alle montagne di cemento cadute nello sfacelo del crollo.

E i vigili del fuoco li hanno salvati, scalando le macerie come montagne. O perchè, come l'autista simbolo della vicenda, quello del camioncino della Basko fermo sul precipizio, hanno schiacciato il freno, vedendo l'auto bianca che lo aveva appena superato precipitare nel vuoto improvviso, come neanche ti può capitare nel peggiore film horror.

Invece era la realtà terribile del 14 giugno 2018, vigilia di Ferragosto, temporale improvviso su Genova e su quel Ponte predestinato alla catastrofe, rappezzato da anni, segnalato come pericoloso, ma lasciato lì a inghiottire 5000 tir al giorno, un traffico decuplicato rispetto ai tempi della sua costruzione.

Una realtà che la procedura aveva fin'ora "gelato" nei passaggi obbligati  di un maxi processo con 58 imputati, centinaia di parti civili, e migliaia di testimoni, decine di periti.

Ora finalmente le schermaglie procedurali sono ferme e, come una tempesta uguale a quella del giorno tragico, sul processo Morandi si abbatte l'onda dei ricordi, di chi ha vissuto quei minuti indescrivibili di terrore.

"Ero sulla carreggiata in direzione Genova, andavo piano, la visibilità era ridotta e il traffico rallentato , un'auto mi ha superato  e ho imprecato. Davanti a me due mezzi pesanti. Improvvisamente ho visto l'asfalto "fessurarsi". Subito non ho capito, poi ho visto pezzi di cemento che si staccavano. Ho visto cadere i mezzi davanti a me, sopratutto quella macchina gialla che mi aveva appena superato. Sinceramente pensavo di andare giù anche io..." Luigi Fiorillo, 41 anni ( allora ne aveva 37) è l'autista di quel camioncino Basko, simbolo della tragedia per sempre, racconta così e aggiunge: " Sarà stata la paura, l'istinto, non so. Ho inchiodato e ho fatto retromarcia. Altri vedendomi si sono comportati allo stesso modo. Mi sono messo a correre verso la galleria e molti hanno seguito il mio esempio, abbandonando le macchine.

Tra questi c'erano anche i coniugi Matteo Granieri e Adele Manca. Avevano sbagliato uscita dell'autostrada e quindi andavano incontro a un destino incredibile. Fossero usciti nel posto giusto non avrebbero neppure affrontato l'inferno.

Quando hanno visto l'autista Basko scappare indietro hanno capito. Hanno strappato le due bambine dai sedili posteriori e si sono messi a correre con le piccole in braccio, mentre i 250 metri di cemento precompresso, l'asfalto, i guard rail, i piloni di una e dell' altra corsia di quel ponte, lungo 1 chilometro e 150 metri, precipitavano sul greto del fiume Polcevera......."

Le testimonianze di questo horror, che non è stato un film della serie, ma la realtà nel cuore di una città moderna, civile, dell'Europa moderna e infrastrutturata, altro che un ponte sospetto in qualche abisso sperduto nel mondo in una foresta amazzonica oppure nella catena montuosa delle Pre Ande selvagge o in fondo al Karakorum della catena himalayana,

Si sono succedute per tre giorni in una sequenza che ha urlato la colossale ingiustizia di quel crollo. Della quale ora devono rispondere quei 58, tra dirigenti e tecnici o ex tali, di Autostrade per l'Italia, Spea Engeneering ( società del gruppo Atlantia, un tempo delegata ai monitoraggi autostradali) e Ministero delle Infrastrutture, che non avrebbe vigilato a dovere sul concessionario.

I sopravvissuti fanno fatica a ricostruire, a ricordare, non perchè manchi la memoria davanti al Tribunale riunito, agli stuoli di avvocati silenziosi nella tecnostruttura costruita dentro al palazzo di Giustizia apposta per celebrare questo processo, sicuramente uno dei più complicati della recente storia giudiziaria italiana.

Ma perchè rivivere quell'incubo è quasi insopportabile.

Come per Daniela, che entra in aula appoggiandosi a una stampella e fatica. "Non credevo che avrei provato queste emozioni  fortissime oggi, come se fossero rimaste chiuse in un cassetto, e riemergono all'improvviso.....da allora ho frequenti attacchi di panico e fatico a stare in mezzo alle persone."

E Diego Macrì il marito:" Il ritorno a casa è stato traumatico. Non dormivo più. Sono terrorizzato dai viaggi lunghi e ho affrontato mesi di psicoterapia."

Nessuno dei sopravvissuti, che raccontano in questa lunga sequenza di testimoniane, ha passato indenne l'esperienza. Sono tutti segnati dal Morandi. Hanno subito danni permanenti. C'è chi da allora non viaggia più in autostrada, chi evita i viadotti.

C'è chi non guida più se piove, chi ha attacchi continui di tachicardia.

E poi ci sono anche i sopravvissuti "estremi", come il Vigile del fuoco Davide Capello, 38 anni, ex calciatore professionista, portiere in serie A del Cagliari, che è precipitato dentro la sua macchina per 50 metri, uscito illeso dal volo e che ebbe la forza di telefonare al padre. "Ero sul ponte, ma sono salvo...."

"Ho visto precipitare accanto a me un' auto bianca e più sotto un Tir....."_ descrive così una scena inimmaginabile.

E lui sopra, con la propria auto che si incastra nelle macerie dall'altro lato rispetto alla guida, dove il suo amico- passeggero muore stritolato e lui non subisce neppure un graffio.

Riesce a uscire dall'abitacolo e a scendere in quell'inferno di cemento, pezzi di ponte, di automobili, di camion, di guard rail, proprio come un miracolato che esce con le sue gambe dall'inferno.

I sopravvissuti sono anche quelli che hanno vissuto la tragedia sotto il ponte, nelle case di via Porro, che avevano il Morandi come tetto. E che se fosse caduto anche in quel punto sarebbero morti a centinaia.

Giorgio Bottaro ricorda che si trovava nel suo appartamento, a poche decine di metri dal viadotto: "Ho sentito un rumore fortissimo e mi sono affacciato alla finestra: c'era polvere e quando si è diradata abbiamo visto il moncone. Nei mesi successivi ho avuto attacchi d'ansia, e insonnia, che si sono riflessi duramente  sul lavoro".

Piangono molti dei sopravvissuti, mentre raccontano uno dopo l'altro i "passeggeri" di quel ponte, protagonisti di un horror vero, piangono mentre depongono e dopo, quando sono fuori dall'aula e affrontano i giornalisti, i microfoni, le telecamere.

Così tutte le storie si dipanano  e fanno fermare il tempo della tragedia, riportando le lancette alle 11,37 del 14 agosto 2018. Una data che a Genova è scolpita per sempre, ma che altrove è stata dimenticata, a giudicare dalla attenzione con l  quale il processo viene seguito dai mezzi di comunicazione non genovesi.

 Silenzio assoluto. Vuoto totale. 

Genova e quella tragedia hanno solo una lettura: il "modello Genova", quello applicato per ricostruire in 18 mesi il ponte distrutto con il disegno di Renzo Piano e propagandato ai quattro venti come simbolo di una efficienza che cancella la burocratizzazione e tutti i passaggi formali di una grande opera pubblica.

Neppure l'urlo delle vittime innocenti_ e paganti sosterrebbe qualcuno, visto che per entrare in quell'autostrada maledetta hanno pagato il pedaggio e nessuno glielo ha restituito, anche da morti_ ha ricordato l'immensità della tragedia.

Ora la concessionaria autostradale sotto processo con i suoi dirigenti e funzionari, a incominciare da quel Giovanni Castellucci, ex ad, che sta difendendosi, cercando di dimostrare che eseguiva ordini del la sua proprietà, le holding potenti della famiglia Benetton, il cui imperativo era fare profitti, tagliando i costi della manutenzione, è stata come nazionalizzata dalla Cassa Depositi e Prestiti, nuova titolare con un fondo di investimento anglosassone.

I Benetton sono fuori e il loro leader attuale , Alessandro, ha avuto il coraggio di intitolare la sua biografia, pubblicata qualche mese fa "La traiettoria". Quale traiettoria, quella che i sopravvissuti hanno appena raccontato?

E così in questo fine anno di guerra, di scandali europei, di crisi energetica, mentre il freddo invernale gela  l'emisfero nord  la storia del ponte riemerge solo per la notizia, emersa da un pacco di intercettazioni anti mafia, sul carico di 900 chili di droga che sarebbe precipitato in un furgone che viaggiava sul Morandi in quel terribile giorno.

Lo hanno scoperto, questo "trasporto eccezionale", collegato al Morandi,  i giudici della magistratura calabrese. E ora è caccia al rottame di quel furgone, trasferito dopo la tragedia nel Lazio e che custodirebbe quel carico eccezionale di hashisc.

Un valore sul quale la mafia vuole fare il suo affare. Quattro anni, quattro mesi e ventotto giorni dopo, quarantatrè morti dopo.

Il dolore di quella sciagura non  fa più notizia. I soldi della droga mafiosa, volati giù dal ponte,  invece si, eccome.