di Cristofaro Sola

Lo scorso fine settimana si è chiuso all’insegna del Qatar. La minuscola penisola araba, protesa nel mare del Golfo Persico, si è presa la scena mondiale per due opposte ragioni – l’una encomiabile, l’altra meno – che tuttavia suggeriscono la medesima poco consolante considerazione. Da europei – e da occidentali – non possiamo esserne contenti.

Ma andiamo con ordine. Si è concluso il Campionato del mondo di calcio organizzato dal Qatar. È stata una manifestazione sportiva ben riuscita, che ha richiamato l’attenzione degli appassionati del pallone sparsi in tutti gli angoli della Terra. La sfida finale tra le nazionali dell’Argentina e della Francia ha rappresentato, dal punto di vista calcistico, un evento epocale destinato a restare nella storia di questo sport. Un confronto esaltante, giocato a viso aperto dalle due squadre, con un finale al cardiopalma. Nella serata di Doha, le linee narrative dello spettacolo sportivo sono state almeno quattro. E tutte di particolare significato. La prima, senza dubbio, ha raccontato lo scontro tra due grandi potenze calcistiche, l’“albiceleste” argentina contro i “galletti” francesi. La seconda, connessa alla prima, ha messo a confronto due importanti tradizioni calcistiche, quella della scuola sudamericana fatta di tecnica e di intelligenza tattica e quella della scuola europea, basata sulla superiorità atletica e sulla forza fisica dei calciatori. La terza, ci ha narrato la sfida di due fuoriclasse assoluti in cerca, entrambi, della definitiva consacrazione nell’empireo dei campioni di tutti i tempi di questa disciplina sportiva, Lionel Messi e Kylian Mbappé. La quarta, ha riguardato il contesto nel quale il campionato è stato disputato. La scelta della Fifa (Fédération Internationale de Football Association) di portare la manifestazione fuori del circuito storico dei Mondiali di calcio, tenuto finora all’interno del perimetro europeo esteso al Continente americano, con l’eccezione della trasferta in Giappone-Corea del Sud nel 2002 – prima volta in Asia – e nel 2010 in Sudafrica. Mai una manifestazione di tale risonanza si era svolta in una zona del pianeta priva di una tradizione calcistica consolidata.

Disputare il Mondiale in Qatar, nel mezzo dell’inverno, interrompendo il regolare svolgimento dei campionati di calcio nazionali, è stata una rivoluzione destinata, per il futuro, a cambiare radicalmente l’orizzonte di questo sport. Però, la scorsa settimana è stata anche quella della deflagrazione dello scandalo-tangenti al Parlamento europeo, che ha coinvolto proprio il Qatar. Il circolo dei presunti corrotti, scoperto dalla magistratura belga, operava per favorire l’espansione degli interessi economici e strategici dell’Emirato qatariota nella pianificazione dello sviluppo europeo. Nello specifico, l’accusa rivolta agli indagati ha riguardato l’azione d’influenza da loro svolta presso alcuni parlamentari europei per accreditare il Qatar come Paese moderno, in rapido allineamento con i valori di libertà e giustizia dell’Occidente, a cominciare dal pieno riconoscimento dei diritti sociali dei lavoratori. Cosa evidentemente non vera. Sebbene le indagini giudiziarie non abbiano, al momento, chiamato in causa esponenti del Governo di Doha, gli eurodeputati hanno votato a grande maggioranza un testo in cui “sollecitano la sospensione dei permessi di accesso per i rappresentanti degli interessi del Qatar” durante le indagini dell’inchiesta “Cash for influence”.

Le autorità qatariote non l’hanno presa bene. In risposta alla presa di posizione del Parlamento europeo, da Doha hanno fatto sapere: “La decisione di imporre una tale restrizione discriminatoria al Qatar, limitando il dialogo e la cooperazione prima della fine del procedimento giudiziario, avrà un effetto negativo sulla cooperazione in materia di sicurezza regionale e globale, nonché sulle discussioni in corso sulla scarsità energetica globale e sulla sicurezza”. Volata via la patina di modernità con la quale il Paese del Golfo si è presentato agli occhi della storia recente, tutto è tornato come prima, a mostrare la vera natura di una tribù beduina che si è ritrovata sotto i piedi una fortuna immensa, fatta di giacimenti di gas e di petrolio. Questi qatarioti possono aver studiato nelle più prestigiose scuole occidentali, aver vissuto nel lusso più sfrenato, essersi ornati con pregiati manufatti da “le mille e una notte”, ma non riescono a nascondere la scorza dura dei predoni del deserto abituati a negoziare con gli interlocutori a suon di ricatti. Cosa ci comunica l’emiro del QatarTamim bin Hamad al-ThaniLa risposta è semplice: se non ci lasciate mano libera nella strategia di penetrazione nell’economia e nella finanza europee, siamo pronti a ridare fiato all’estremismo islamista che vi minaccia e rimettiamo in discussione gli accordi sulla vendita del gas, del quale avete disperato bisogno dopo la rottura del partenariato commerciale con la Russia.

Benché di ridotta superfice, il piccolo Qatar dei devoti seguaci di Allah nutre una smisurata ambizione: sottomettere l’Europa, non invadendola ma comprandola. Ed è in questo disegno, tanto spregiudicato quanto concreto, che sta il punto di congiunzione tra le due narrazioni, apparentemente opposte, del Qatar di questo tempo storico. Anche nel racconto vincente, positivo, della manifestazione sportiva c’è stato qualcosa che ha disturbato. Si è avvertito il retrogusto sgradevole del comportamento dell’autorità qatariota, assunto all’atto della premiazione dei vincitori del torneo. Cos’è accaduto? L’emiro Tamim bin Hamad al-Thani, presente alla cerimonia di consegna dei premi, si è lasciato andare a calorosi gesti d’affetto nei riguardi dei due protagonisti della sfida, Messi e Mbappé. Si sarebbe potuto pensare all’entusiasmo del tifoso se non fosse per il fatto che entrambe le stelle del calcio militano nella squadra francese del Paris Saint-Germain, di proprietà della Qatar Investment Authority, fondo sovrano del Qatar direttamente riconducibile all’Emiro Tamim bin Hamad al-Thani. Il gesto di compiacimento del padrone di casa verso i due campioni lasciava trapelare non un sentimento d’affetto ma un senso di possesso che nella personalità di un capo tribù beduino è un tratto genetico. Al-Thani ha accarezzato i due campioni allo stesso modo in cui un altro emiro, ma degli Emirati Arabi Uniti, Mohammed bin Rashid Al Maktoum, accarezzerebbe uno dei suoi adorati cavalli, campioni di Endurance. C’è dell’altro. Al momento della consegna del trofeo mondiale, l’Emiro ha voluto che Messi indossasse la Bishtun capo d’abbigliamento riservato ai sovrani e ai capi tribù e che simboleggia benessere e regalità. Un gesto in apparenza di cortesia ma che, se letto in profondità, lascia scorgere la volontà di sopraffazione culturale dell’emiro il quale, imponendo al calciatore l’indumento regale della tradizione araba, ha coperto la maglia della nazionale argentina, vincitrice del torneo.

Veniamo alla considerazione finale. Gli eventi di questi giorni ci insegnano che, come occidentali, non siamo al sicuro. Tutto ciò che in secoli di lotte e sofferenze, marchiati col sangue e col ferro, i nostri avi hanno saputo costruire, oggi è messo in discussione. Di una cosa possiamo essere certi: i musulmani non hanno smesso di fare i musulmani. Continuano a pensare che il loro dovere sia la conversione degli infedeli al vero Dio. Se alcuni tra loro ritengono che tale obiettivo vada raggiunto attraverso la guerra e l’assoggettamento in schiavitù dei popoli sottomessi, altri, come l’emiro qatariota, pensano che si possa conseguire pacificamente l’agognata conquista, semplicemente procurandosi di comprare dagli occidentali tutto quanto sia acquistabile: storie, persone, tradizioni, diritti, insieme ad aziende, grandi e piccole, società sportive, grattacieli, marchi dell’alta moda. Eppure, la volontà di conquista non è una velleità campata in aria. Si basa sulla convinzione dell’ortodossia musulmana, di casa a Doha, che il nemico di un tempo abbia perso interesse nel difendere valori e principi nei quali non crede più, ma si sia arreso al veleno di un nichilismo distruttivo, inoculato attraverso la fluidità del relativismo culturale. Ora che la frittata è fatta, la sola domanda alla quale resta rispondere è: quale, tra le due modalità di conquista, è la più temibile perché ha maggiori probabilità di successo? Sarebbe salutare, una volta trovata la risposta, comportarsi di conseguenza.