É difficile capire cosa separa una notizia vera da una falsa in questi giorni. Dagli uffici americani del Cpj, Comitato protezione giornalisti, lo ripete affranta la responsabile legale Courtney Radsch. Negli ultimi mesi anche l’organizzazione fondata nel 1981 per la difesa della libertà di parola dei giornalisti nel mondo ha registrato un picco nefasto. Il Covid-19 costringe alcuni in affollate corsie d’emergenza in ospedale, molti nella tomba, ma altri ancora in cella. È la sorte dei reporter che in queste settimane investigano su Governi impreparati, inadeguati o indifferenti al diffondersi della pandemia e, dalla Bielorussia al Venezuela, finiscono in prigione. "Abbiamo bisogno di giornalisti indipendenti che non assecondano necessariamente la linea ufficiale dei leader del mondo, che stanno fornendo informazioni non accurate. Abbiamo Paesi dove sono i capi di Stato stessi a diffondere informazioni non corrette, accade negli Stati Uniti, non solo nelle Filippine" continua Radsch. "Per il Covid-19 i giornalisti si trovano sotto una pressione senza precedenti per le nuove restrizioni di movimento, le nuove condizioni di lavoro, le nuove leggi sulla stampa".

Dall’Ungheria all’Uzbekistan, dalla Russia all’Africa, i governi possono infliggere multe e anni di carcere a chi diffonde fake news o disinformazione sul virus, grazie a decreti repentinamente approvati che permettono in realtà di neutralizzare, sopprimere, criminalizzare chi sfida, critica o indaga la versione ufficiale delle autorità sulla malattia. "Assistiamo alla proliferazione delle cosiddette "leggi contro le fake news" che vengono usate per restringere la libertà di parola, detenere giornalisti in decine di Stati nel mondo, dove è diventato un crimine, per esempio, pubblicare statistiche non allineate a quelle governative". Spaventoso "è il potere di sorveglianza che i governi si stanno accreditando in questo periodo" dice la Radsch e il parallelo funesto che traccia è quello con l′11 settembre: "quel periodo ha portato alla diffusione delle leggi anti-terrorismo, poi usate contro i giornalisti per criminalizzarli o metterli dietro le sbarre con accuse false".

Gli appelli di scarcerazione del CPJ in difesa dei reporter vengono inviati giorno e notte a una latitudine all’altra nel mondo. In Venezuela Darvinson Rojas è stato arrestato dalle Faes, squadre speciali di Caracas, da cui è stato interrogato per ore sul nome della fonte che gli ha fornito informazioni sulla mala gestione del Corona nello stato di Miranda, dopo essere stato arbitrariamente detenuto per giorni. Interrogati, espulsi, trascinati nel fango per essere screditati, uno dietro l’altro, i giornalisti rimangono nel mirino da Minsk a Delhi. Nella siderale Bielorussia, per aver criticato l’inazione del presidente Aleksandr Lukashenko, che ha giudicato il virus "solo una psicosi", il giornalista Siarhei Satsuk rischia una pena di dieci anni di carcere. Minacce, interrogatori e detenzione hanno raggiunto Yayesew Shimelis, penna del giornale Feteh e volto della tv Tigray, ad Addis Abeba e in Niger Kaka Touda Mamane. Sorti gemelle a quella di Siddharth Vardarajan, redattore indiano, colpevole di aver firmato "un’indagine che semina discordia" a Delhi.

Ruth Michaelson, corrispondente del Guardian dal 2014, è stata costretta ad abbandonare l’Egitto dopo aver diffuso un dossier che smentiva le basse cifre dei contagi fornite dal ministero della Salute nazionale. Il suo permesso giornalistico è stato ritirato come la licenza dell’agenzia Reuters, sospesa per motivi equivalenti dalle istituzioni irachene. Sulle mappe dell’est uno dei primi nomi dell’elenco dei giornalisti in pericolo è serbo: Ana Lalic. Uno degli ultimi ucraino: Tetiana Sivokon, aggredita mentre investigava nel Paese il mercato nero delle mascherine. Alcune richieste che hanno raggiunto il CPJ in questi mesi neri sono partite dal nostro Paese. "In Italia, come in India e Sud Africa, i freelance ci riferiscono che non riescono a lasciare la casa per mancanza di documenti, molte agenzie hanno smesso di lavorare con gli stringer e sono in emergenza economica. Quello che accade è destinato ad avere un profondo e durevole impatto non solo sui collaboratori, ma sull’industria dei media tutta, che su di loro ha sempre fatto affidamento" conclude Radsch. Alcuni in faccia continueranno a portare la mascherina, altri la museruola, rappresentazione plastica del silenzio imposto da autorità, regimi o democrazie illiberali. Altri se la toglieranno anche nell’era Covid-19: sanno che il virus è pericoloso, ma il silenzio da sempre mortale.

MICHELA A.G. IACCARINO