di Alfredo Luis Somoza

L’ennesimo colpo di scena nella vicenda giudiziaria dell’ex presidente brasiliano Inácio Lula da Silva riapre le polemiche sulla difficile convivenza tra i poteri in America Latina. La separazione e l’autonomia dei poteri esecutivo, legislativo e giudiziario, in un sistema presidenziale, richiedono un grande sforzo laddove ci sono forti tradizioni populiste. Nella mentalità di molti presidenti eletti direttamente dal popolo, infatti, il Parlamento deve essere sempre allineato alle loro politiche. E, se in un determinato momento accade che la maggioranza parlamentare non coincide con quella che ha espresso l’esecutivo, il Parlamento tende a essere delegittimato. È successo in Venezuela nel 2015 e anche nel Perù del 2020. Ma può accadere anche il contrario, e cioè che un Parlamento riesca a eliminare un presidente per ripicca politica, come capitò proprio in Brasile a Dilma Rousseff, allontanata dalla presidenza nel 2016 con la procedura dell’impeachment.

Lo stesso difficile rapporto si ripropone con il potere giudiziario. Diversi presidenti sono riusciti a modellare la Corte Suprema dei rispettivi Paesi a loro immagine e somiglianza, come nel caso della Bolivia di Evo Morales o del Nicaragua di Daniel Ortega. Mossa utile per modificare costituzioni e leggi elettorali, o per garantirsi l’immunità. Anche nel rapporto tra il potere esecutivo e quello giudiziario, però, a volte gli abusi sono di segno opposto: può accadere che spezzoni della magistratura agiscano per scardinare i governi per conto di poteri forti dell’economia o di altre parti politiche. Il caso più clamoroso degli ultimi anni è stata l’inchiesta “Lava Jato” condotta in Brasile dal giudice Sergio Moro. Pressioni sulla corte giudicante, arresti spettacolari, costruzione e manipolazione di prove, forzature sulla giurisdizione che vennero usate per impedire la candidatura di Lula da Silva alle presidenziali del 2018, aprendo la strada al governo di Jair Bolsonaro. Lo stesso giudice Moro fu “premiato” da Bolsonaro con la poltrona di ministro della Giustizia.

Non solo: proprio il clima politico avvelenato da quell’inchiesta aveva favorito l’impeachment di Dilma Rousseff, in realtà mai accusata formalmente di reati di corruzione (mentre molti tra i parlamentari che complottarono contro di lei oggi sono in galera). In un quadro simile, non stupisce che in Argentina i diversi procedimenti giudiziari avviati contro l’ex presidente, e oggi vicepresidente, Cristina Fernández Kirchner siano letti ora come la prova della sua corruzione, ora come la manifestazione di un complotto ordito dai giudici per eliminarla dalla politica. La grieta, la spaccatura che divide in due molte società latinoamericane, dunque non riguarda solo la contrapposizione tra fronti con diverse idee politiche, ma prende anche la forma di un conflitto tra le istituzioni, separate da un abisso sempre più largo e profondo, mentre insieme dovrebbero garantire il meccanismo della democrazia.

È l’eterna questione della “qualità democratica”. Della distanza, cioè, tra la democrazia sulla carta, che esiste per il 99% dei Paesi latinoamericani, e una democrazia piena. Il populismo, il caudillismo, la corruzione, l’esasperazione della lotta politica minano l’equilibrio democratico e alimentano la guerriglia tra poteri. Ovviamente alla fine tutti escono indeboliti, e in molti Paesi torna a riaffacciarsi la nostalgia per l’uomo forte. Ma il paradosso, o forse la speranza, è che nessuno sarebbe più disponibile a sacrificare i diritti acquisiti in democrazia, per tornare a un passato che ha prodotto solo lutti.