La pasta mette spesso d'accordo tutti a tavola, è un simbolo di convivialità, ma città che vai, tempi di cottura che trovi. Una geografia che si dirama tra i cultori della pasta fresca e ripiena, e quelli - prevalentemente da Roma in giù - della pasta secca. Nell'area padana le tagliatelle al dente non esistono, devono essere morbide. A Roma lo spaghetto piace "al chiodo", quasi crudo, e la cottura che va bene a Bari non è la stessa a Bologna. A tracciare l'atlante degli usi e costumi degli italiani in tema di spaghetti&co Cristina Bowerman, chef del ristorante stellato Glass Hostaria, a Roma, e presidente dell'associazione Ambasciatori del Gusto, insieme a Riccardo Felicetti, presidente dei pastai italiani, in un incontro online della serie WeLovePasta promossa da Unione Italiana Food per guidare in cucina quegli italiani che, costretti ora in casa dalle zone rosse imposte per contenere la pandemia, si devono cimentare ai fornelli tra le mura domestiche e sono alle prime armi. Nel 30% dei casi, tra le cronache del lockdown, ci si attiene scrupolosamente al tempo di cottura indicato sulla confezione, o addirittura, c'è chi spezza ancora gli spaghetti, come facevano gli stranieri al primo approccio, mentre sette italiani su dieci si affidano all'assaggio o al proprio sguardo esperto per determinare quando va scolata la pastasciutta. I più smart fanno metà cottura in acqua per poi cimentarsi nella pasta risottata. Di tendenza anche la rivincita della pastina, che rievoca i sapori dell'infanzia. "La pasta secca - dice la chef Bowerman - rappresenta la cucina italiana a tutti gli effetti, ed è ora presente nei menu dei ristoranti di ogni latitudine. Anzi per me è la cartina-tornasole di una buona organizzazione in una cucina professionale, è la partita che guida i tempi di tutte le altre comande, dall'antipasto al dessert. Per questo è una prova di bravura per il cuoco. Ma è così nel Dna che appartiene alla nostra identità culturale anche a casa. Per gli italiani la scelta del formato è istintiva, o si razionalizza a seconda del condimento. All'estero spesso il sale viene aggiunto a tavola e non nell'acqua di cottura. Gli italiani non cadono mai in questo errore perché all'assaggio si avvertirebbe differenza di salinità tra interno e esterno. Sbaglia chi cuoce la pasta in poca acqua perché quando manca di movimento, di attività cinetica, il fusillo si ritrova l'amido attaccato e rimane viscido", sottolinea la chef di origini pugliesi. E per i formati grandi, dal conchiglione al pacchero, tanta acqua nella pila serve a non creare fratture nella superficie. "In passato - osserva Felicetti - l'uscita dell'amido in cottura era il nemico numero uno. Oggi la tecnologia permette ai cuochi la scelta tra paste che cacciano più amido o meno a seconda del gusto. Grazie al miglioramento della produzione consolidatasi da decenni nei pastifici aggiungere l'olio nell'acqua di cottura è un errore, peraltro frutto di un retaggio storico di quando la produzione non aveva un sostegno proteico e risultava collosa. Un'immagine anni Settanta - ironizza - ma all'estero la narrazione è ferma lì perché la pasta italiana evoca tradizione, e non la si vuole pensare come frutto di moderni processi di lavorazione". E forse anche perché tante produzioni di imitazione non tengono tanto la cottura, mentre la pasta made in Italy, racconta Felicetti, viene sottoposta a veri e propri crash test e prove di essiccazione e di cottura monitorate col vetrino. "Poi conta l'esperienza - conclude - per la carbonara la pasta può essere più morbida perché di croccante c'è il guanciale, la cacio e pepe impone invece pasta al dente". Mentre il salto in padella, per la Bowerman, "un falso mito, un rito maschilista, che fa raccogliere il condimento con semplicità, ma poi si rischia di servire un piatto freddo. Va fatto eccezionalmente, e non come prova da macho ma per far raggiungere al riso la giusta grassezza"