Il più troglò (per dirla alla francese) dei politici nostrani, quello che suonava il citofono del presunto spacciatore, che trovava normale sparare ai ladri dal balcone di casa, che da ministro dell’Interno anticipava via tweet le “retate” di polizia, che ripeteva “in galera i delinquenti e buttiamo via la chiave”, Matteo Salvini insomma, spiazza tutti annunciando il sostegno ai referendum sulla giustizia del Partito Radicale Nonviolento Transpartito Transnazionale. “Chi se lo poteva aspettare?”, ammette entusiasta il segretario Maurizio Turco. In effetti, la mossa è imperscrutabile. Ad esempio, non si capisce perché tutto d’un tratto Salvini abbia sposato un’iniziativa che fa a pugni con la politica delle caverne fin qui seguita. E si dichiari garantista proprio quando, semmai, gli converrebbe respingere a colpi di clava l’assalto della Meloni, la quale lo azzanna da destra tra gli applausi della sinistra. Il rischio di ingentilirsi, per la Lega, è di perdere ancora più voti.

Salvini smentisce che il rinvio a giudizio gli abbia aperto gli occhi sulla malagiustizia italiana. Peccato però: le conversioni legate a drammi personali, per quanto interessate, sono spesso le più autentiche e sincere. Non ci sarebbe nulla di male se un leader riconoscesse: “Ho scoperto sulla mia pelle che cosa significa trovarsi sul banco degli imputati”; o che la vicenda di Denis Verdini, papà della fidanzata Francesca, gli abbia suggerito magari qualche spunto di riflessione. Al Cavaliere non fece danno, anzi. Invece lui nega, dunque bisogna prenderne atto. Altra ipotesi: può darsi che, fiutata l’aria pesante nei confronti dei magistrati, Salvini abbia inteso cavalcare l’onda di sdegno. Per il Partito Radicale sarebbe manna dal cielo, in quanto senza la Lega non riuscirebbe mai a raccogliere entro settembre, cioè col caldo e con il Covid, le 500mila firme richieste dal referendum.

Ma il Capitano è così invasivo, segnala Enrico Costa di Azione, e la sua presenza così ingombrante che la separazione delle carriere e la responsabilità civile dei magistrati passeranno in second’ordine. Il referendum diventerà “pro” o “contro” Salvini, con grave danno per tutti i sinceri garantisti e per i Radicali medesimi. Circola una terza chiave di lettura, questa davvero riservata ai palati fini: per impedire il sorpasso della Meloni, e tenersi stretta la guida del centrodestra, Salvini starebbe cercando di annettere Forza Italia in modo da alzare l’asticella verso il 30 per cento, là dove Giorgia non può arrivare. Sullo sfondo ci sarebbe un patto federativo, o di unità d’azione, con il mondo berlusconiano; che per parte sua non chiede di meglio; e si tufferebbe di corsa tra le braccia di Matteo se lui provasse a moderarsi un po’, a fare pace con i diritti umani, a contenere le pulsioni più primordiali e a presentarsi con l’abito buono del liberale illuminato (come gli suggerisce da mesi il professor Marcello Pera).

Secondo i più ottimisti, Salvini si sta sforzando di entrare nella sua nuova veste. L’appoggio ai referendum segnala un “fermento evolutivo” che magari, nell’immediato, pagherà un prezzo in termini di consensi; ma al momento giusto, prevede il ministro forzista Renato Brunetta, renderà lo stesso Salvini più interessante e “sexy” agli occhi degli elettori. Purché, si capisce, questa metamorfosi non somigli a un semplice maquillage, a un travestimento, a un trucco per i gonzi. Qui nasce il vero problema. Proprio mentre giovedì Salvini annunciava l’intesa coi Radicali e denunciava l’eccesso di custodia cautelare, elencando i troppi casi di ingiusta detenzione nel paradiso carcerario italiano, in quelle stesse ore nella Commissione giustizia i suoi rappresentanti facevano muro contro la prescrizione. Cioè contro un pilastro della nostra civiltà giuridica. E presentavano un emendamento per confermare così com’è la legge Bonafede, che ne sospende il decorrere già dopo il primo grado di giudizio. Forse perché quei deputati non condividono la svolta referendaria; oppure perché nessuno gliel’ha spiegata.

Di sicuro, la Lega non ha ancora fatto i conti col suo passato forcaiolo. Rimane, nell’immaginario di molti, il partito del cappio sventolato in Aula, del “fine pena mai”, della mano implacabile contro le canne. Della caccia ai migranti. Del diritto di farsi giustizia da sé. Rinunciarvi del tutto farebbe felice la Meloni. Ma purtroppo non si può essere garantisti qui e “manettari” là, a proprio piacimento. Mostrandosi insincero, coltivando l’ambiguità, Salvini rischia la fine di Gianfranco Fini, che ruppe in parte con il passato senza però mai diventare un liberale vero. Preferì restare nella terra di mezzo. Col risultato di deludere tutti, di qua e di là.

UGO MAGRI