Non abbiamo più voglia di cibarci di tragedie, di ascoltare notizie atroci, la nostra capacità di provare empatia - sollecitata dalla pandemia e da continui disastri, come terremoti, incendi, guerre - sta facendo acqua da tutte le parti. Di fronte ad evento catastrofico ci siamo inariditi così tanto da farci una risata. È quanto emerge da un articolo, pubblicato dal The Atlantic e intitolato “All These Simultaneous Disasters Are Messing With Our Brains”, che fa il punto proprio su quanto si stia disperdendo questa nostra abilità.

Lo psicologo Steven Taylor, intervistato dal giornale, racconta un piccolo aneddoto, un fatto a cui ha assistito personalmente: un gruppo di amici rideva di fronte alle immagini degli uomini afghani caduti dall’aereo in volo partito da Kabul. Dicevano di trovare il video “divertente”. Taylor, specializzato in “Psicologia dei disastri” alla University of British Columbia, sa benissimo quanto lo stress intenso e costante possa desensibilizzare la mente. Ciò che ora giudica preoccupante è il mix di eventi che ci sono caduti e ci stanno cadendo addosso: sembra che quest’ultimi possano intaccare la nostra capacità di provare empatia.

Per empatia, come sottolinea Treccani, si intende “la capacità di porsi nella situazione di un’altra persona o, più esattamente, di comprendere immediatamente i processi psichici dell’altro”. In poche parole, mettersi nei suoi panni. Questo tipo di abilità è stata ampiamente sollecitata durante gli ultimi due anni, con il mondo colpito dalla pandemia. Virtualmente ognuno di noi, in qualche modo, ha sentito il dolore dell’altro. Nello stesso tempo però la macchina “sforna catastrofi” che è ormai il nostro pianeta non si è interrotta. Gli incendi hanno continuato a riempire il cielo di fumo, i terremoti hanno continuato a sconvolgerci. “Vale la pena, dunque, chiedersi - si legge sul The Atlantic - se tutti questi disastri che avvengono in maniera contemporanea stiano alterando il modo in cui processiamo questi eventi, come reagiamo ad essi, e come reagiremo alle catastrofi per il resto della nostra vita”.

Il quesito, in realtà, ne sottintende altri due: uno riguarda le vittime dei futuri disastri e l’altro riguarda invece quelli che continueranno ad osservare il tutto da lontano, da una posizione privilegiata. Per quanto riguarda le vittime, è legittimo chiedersi se la sofferenza alleni quella tanto nominata “resilienza”. Lo psicologo intervistato dal The Atlantic spiega che dopo essere sopravvissuti ad un evento potenzialmente letale soltanto una minoranza ne esce rafforzata e con il “muscolo” della resilienza allenato, anche per il futuro. La maggior parte di chi sopravvive sperimenta problemi legati allo stress. In particolare, sembra proprio che queste persone rischino di avere reazioni “non sane” nel caso in cui si verifichi un’altra catastrofe.

Quanto possiamo resistere? Quante volte possiamo cadere e poi rialzarci? Joe Ruzek, un ricercatore che si occupa di disturbo da stress post-traumatico alla Palo Alto University, ha spiegato al The Atlantic che le persone non hanno una riserva infinita di strategie di “coping”, ovvero di strategie per affrontare le crisi. Se siamo chiamati troppo spesso ad affrontare, gestire, risollevarci da eventi traumatici, le nostre risorse possono indebolirsi. Ecco perché la pandemia, che ci ha sollecitati così tanto, ci ha fatto diventare spettatori molto più vulnerabili agli “spettacoli” degli incendi, dei terremoti, della guerra che ci vengono propinati ogni giorno.

Diverso è il discorso per chi assiste alle catastrofi, rimanendone fuori. In questo caso, le reazioni possono essere agli opposti: aver vissuto un evento traumatico sulla propria pelle (la pandemia, ad esempio) può renderci più empatici verso chi sopravvive. Al contrario, proprio l’essere scampati ad un pericolo così grande può inaridirci al punto da trovare i video delle persone che cadono dall’aereo in volo all’aeroporto di Kabul divertenti, come riporta lo psicologo Taylor. Kang Lee, neuroscienziato dello sviluppo alla University of Toronto, ha osservato la reazione di bambini di 9 anni all’indomani di un disastro: sembra che abbiano la propensione a diventare più generosi dopo eventi che hanno un inizio e una fine ben definiti come un terremoto. Per quelli dai contorni più “astratti” come la pandemia, le cose cambiano. Il sospetto è che di fronte ad un evento dalla traiettoria poco lineare le persone siano meno inclini all’empatia.

Anche la distanza incide. Ciò che accade lontano da noi ci colpisce meno: siamo più portati a donare e a far sentire la nostra vicinanza quando la tragedia colpisce la nostra zona o una zona limitrofa. Il terremoto di Haiti o la caduta dell’Afghanistan nelle mani dei talebani sono forse eventi che catturano la nostra attenzione, scrive il The Atlantic, ma non fanno alzare la nostra asticella dell’empatia.

“Le persone sono stufe, ne hanno abbastanza delle atrocità e dello stress, e semplicemente non vogliono sentire più parlare di tutto questo”, spiega lo psicologo Taylor. Se davvero la stanchezza che proviamo sta facendo svanire la nostra capacità di provare empatia, potrebbe esserci le seguenti conseguenze: i sopravvissuti ai disastri potrebbero diventare più vulnerabili che mai al trauma, chi guarda tutto da lontano potrebbe essere meno incline di sempre ad aiutare.

ILARIA BETTI