di Elisabetta Gualmini

Bisogna rassegnarsi. Il reddito di cittadinanza non è, e non sarà mai, uno strumento per creare occupazione. Pensare che esso produca, con meno di 10 miliardi, donne cotonate e uomini incravattati pronti a inserirsi nello sfavillante mercato del lavoro è pura follia. Nemmeno col più navigato dei navigator. Facciamo tutti un bel respiro e accettiamo il reddito di cittadinanza per quello che è. Uno strumento di lotta alla povertà più estrema, che esiste in tutti i paesi europei da decenni, e che deve appunto funzionare come cuscinetto di ultima istanza per coloro che non hanno una storia contributiva sufficiente per accedere ad altre misure di sostegno o per quelli che temporaneamente si trovano in una fase di profondissima difficoltà.

Che lo Stato destini 10 miliardi o anche il doppio per le famiglie e gli individui che stanno sotto a soglie di reddito insostenibili è sacrosanto. Perché sì, i poveri esistono per davvero, non sono spariti sventolando annunci da balconi, ci sono e ci saranno ciclicamente, non vengono assorbiti completamente nemmeno da congiunture economiche col segno più. In tutti i paesi, ci sono strutturalmente flussi di persone che entrano in situazioni di povertà e che devono essere aiutate ad uscirne il prima possibile, anche solo con un po' di reddito in tasca.

I poveri ci sono, ma non per questo devono per forza soffrire e tormentarsi col cilicio; non sono tutti indivanati, hanno vite angosciate, molti di loro un lavoro vero lo prenderebbero al volo, e soprattutto nella maggior parte dei casi non è colpa loro se non guadagnano o non guadagnano abbastanza. Perché il lavoro non è più un deterrente contro la povertà, almeno da vent'anni. Nell'Inghilterra vittoriana del 1800 chi non lavorava non doveva mangiare, oggi dovremmo aver fatto qualche passo in avanti.

I dati sono chiarissimi. Il reddito di cittadinanza ha dato una mano a 1,2 milioni di destinatari (3 milioni nel complesso) con meno di 600 euro al mese; ha coinvolto 660 mila minori, più single che famiglie numerose, più italiani che stranieri, più residenti al Sud che al Nord. Non sono numeri giganteschi, ma in diversi hanno sopravvissuto meglio per di più in era Covid. Ha prodotto però pochissima occupabilità.

Tutto torna. È un classico sussidio per fasce molto fragili di persone che faticano a entrare o rientrare nel circuito del lavoro attivo. Gli errori fatti nel progettare lo strumento sono altrettanto chiari e possono essere corretti. Primo. Aver sottratto la gestione ai comuni, e averla data in mano ai Centri per l'impiego, uffici iperburocratici che storicamente intermediano sotto al 3% della forza lavoro. Sono i comuni, o meglio, i quartieri che hanno il polso del livello di povertà diffuso nei propri territori e che possono elaborare soluzioni ad hoc, cucite addosso alle persone in stato di bisogno.

Gestire il tutto centralmente non funziona, nemmeno a livello regionale. Questa era la filosofia, corretta, alla base del reddito di inclusione, peraltro introdotto da Renzi (cos'è successo caro Matteo?), poi si è voluto stravolgere tutto.

Secondo: aver inserito un requisito sulla residenza molto punitivo, di 10 anni. D'altro canto, questa era la bandiera della Lega a tolleranza zero di Salvini nel 2019, all'insegna del Prima-gli-Italiani. Una gara tra gli ultimi degli ultimi miserevole.

Escludere le famiglie degli stranieri, spesso con molti minori, anche con 7-8 anni di residenza crea iniquità e discriminazioni; è quasi ovvio dire che è meglio integrare le persone piuttosto che cacciarle via.

Terzo: legare il reddito per forza a politiche attive del lavoro; per le persone in povertà assoluta servono interventi sociali a 360 gradi che non si esauriscono con il lavoro, ma che vanno dalle politiche abitative, alle politiche scolastiche, all'inclusione sociale vera e propria.

Ne abbiamo sentite di tutti i colori. Chi è in preda ad altezzosi colpi di amnesia e si scorda di averlo introdotto, il reddito, (Renzi prima e Salvini poi), chi con grazia e rispetto per i destinatari lo chiama metadone di stato (Meloni), chi pensa sia legato a luccicanti prospettive di crescita (Conte). Nulla di tutto questo.

Certo ci sono le amministrative e su qualcosa bisogna pure confliggere tra destra e sinistra. Ma almeno si dicano le cose come stanno. Una indennità contro la povertà assoluta serve, deve avere spazio dentro al bilancio pubblico, con limiti e proporzioni precise rispetto ad altri interventi. Altra cosa è il lavoro che è molto più legato a quel 6% di rimbalzo del Pil che aspettiamo. E per fortuna Draghi, con le solite tre parole, anzi quattro, ha detto le cose più sensate: il principio è giusto. Sembrava uno svolazzo estivo di banalità. E invece sta tutto lì.