di Marco Ferrari

Antonio Gramsci ha esercitato la critica teatrale in un periodo cruciale per la scena italiana: tra il 1916 e il 1920 iniziò a imporsi il genio di Luigi Pirandello; con Virgilio Talli si consolidò la nuova figura del regista; esplose definitivamente il fenomeno della comicità popolare con Fregoli, Petrolini e Viviani. Da buon cronista dell'edizione torinese del giornale "l'Avanti!", Gramsci testimoniò in diretta questi fermenti. Fu tra i primi a sottolineare la genialità dell'autore di "Liolà e Il giuoco delle parti", fu tra i più lucidi a tessere l'elogio di Talli, ma non capì la comicità popolare che bollò come volgare, commerciale e diseducativa. E fu un peccato perché invece Petrolini e gli altri erano proprio gli interpreti di quel proletariato al quale Gramsci stesso aveva dato piena cittadinanza politica. Ora un libro curato da Nicola Fano, intitolato "Antonio Gramsci: contro i comici", edito da Succedeoggi Libri (ordinabile on line sul sito oppure su Amazon o Ibs), esplora questo esercizio sfuggito ai maggiori analisti gramsciani.

"Non è vero che il pubblico diserti i teatri; abbiamo visto dei teatri, vuoti per una lunga serie di rappresentazioni, riempirsi, affollarsi all'improvviso per una serata straordinaria in cui si esumava un capolavoro, o anche più modestamente un'opera tipica di una moda passata, ma che avesse un suo particolare cachet. Bisogna che ciò che ora il teatro dà come straordinario diventi invece abituale" scrive il fondatore del Pci e autore dei pregevoli "Quaderni dal carcere", pietra miliare della cultura italiana. Curato dallo storico del teatro Nicola Fano, questo libro per la prima volta raggruppa per temi i più importanti interventi in materia di Antonio Gramsci. E, se da un lato il grande intellettuale si scaglia contro la gestione commerciale dei teatri torinesi, colpevoli di puntare solo sui comici, dall'altra teorizza la necessità di un nuovo teatro etico che aiuti l'uomo a definire sé stesso e la propria identità in relazione alla società.

In queste pagine c'è anche il ritratto di un teatro in fermento come quello del primo Novecento, che faticosamente cerca le strade di una nuova arte dell'attore che cancelli un passato di mattatori gigioni e manierati. Ecco allora che brillano i ritratti di grandi interpreti come Ruggero Ruggeri o Angelo Musco; mentre all'elogio di Emma Gramatica si contrappone una geniale, argomentatissima stroncatura del mito di Lyda Borelli. "Gramsci, comunque, - spiega Nicola Fano - riconosce sempre al teatro una funzione eminentemente ludica, purché sia adeguata al miglioramento della coscienza civica degli spettatori. Egli apprezza la maestria dei grandi attori del suo tempo: tesse elogi incondizionati di Emma Gramatica o Angelo Musco, mentre pone l'attenzione sull'eccessiva autoreferenzialità di Ruggero Ruggeri o di Ermete Novelli. Ma è freddo e lucido quando articola con estrema chiarezza il suo disprezzo artistico per Lyda Borelli. Nell'articolo ricordato in precedenza, della grande diva egli sottolinea la futilità interpretativa: ne detesta il mero valore commerciale. D'altra parte, il puro successo di cassetta è ciò che Gramsci detesta di più nel teatro del suo tempo. Proprio in nome del teatro etico, contro quello che egli ritiene d'evasione, dichiara guerra ai maggiori impresari teatrali torinesi dell'epoca, i fratelli Chiarella".

Il curatore ha fatto anche una sorta di pellegrinaggio nei luoghi natali di Gramsci. "Siamo nella Sardegna mediterranea ma anche in montagna" spiega Fano. Eccoci alle pendici occidentali estreme del Gennargentu, un balcone affacciato sull'oristanese. Da Ortueri, seicento metri di altitudine, volgendo lo sguardo a nord ovest, si vede il faro di Sinis, oltre gli stagni di Cabras. Ancora più a nord si percepisce il deserto del Monte Ferru, l'area di decine di chilometri quadrati bruciata qualche settimana fa. Gramsci è nato a pochi chilometri di distanza, Ales, e cresciuto a Ghilarza. 

"Come questa terra così lontana dai centri nevralgici della cultura può aver forgiato un genio come Gramsci? La risposta – spiega Nicola Fano - è qui, nella compostezza di questa gente mezza barbaricina, nella dignità con cui si informano, valutano e, sia pure con un certo distacco tutto sardo, partecipano. Ma è anche nella ricchezza di questa natura che mescola le querce alle pale dei cactus, il lentischio di campagna al ginepro di mare. E il massiccio del Gennargentu, lassù troneggia bianco. E sembra un pezzo di Dolomia incistato nel tirreno. La risposta è nell'identità profonda e profondamente condivisa di questa gente e di questa terra".