Sgomento, choc, dolore. La sentenza di condanna a 13 anni e due mesi per Mimmo Lucano è una specie di pugno nello stomaco. E sì che dovremmo essere avvezzi ai pugni nello stomaco, noi che continuiamo a credere in cose come l'accoglienza e l'inclusione, così poco popolari e perdenti nell'Italietta fascioleghista e sovranista, abituata dalla Bestia che al dialogo è sempre preferibile il cannibalismo e che il paesaggio più gradevole è sempre quello delle forche (tranne che per giovani amici "fragili" e vecchi marpioni "perseguitati").

Non sappiamo le motivazioni di una sentenza che – evenienza obiettivamente rarissima – addirittura raddoppia le richieste del pm, ma ci sono molte altre cose che sappiamo, con una certezza che sta al di là di qualsiasi conclusione processuale (che si rispetta sempre, per quanto ci sconvolga e ci sembri ingiusta e orrenda, e persino contraddittoria, rispetto a precedenti pronunciamenti giudiziari). Basta aver passato un solo minuto con Mimmo Lucano, basta aver camminato per le strade di Riace, prima, quando il suo caparbio, ostinato "modello" dimostrava che l'accoglienza si può fare, e addirittura giovare, assieme, alla comunità che accoglie e a quella che viene accolta. L'accoglienza non dei carnai dei centri di detenzione, ma quella difficile, quella diffusa, quella che pretende di riparare i viventi rotti e rammendare le comunità coi fili spezzati di comunità interrotte altrove.

Mimmo Lucano non è stato sconfitto da questa sentenza (che è comunque solo di primo grado): Mimmo Lucano e il suo modello sono stati sconfitti – e lì abbiamo sentito lo stesso pugno allo stomaco di oggi – quando l'ultimo pullman ha portato via quelli che a Riace avevano trovato non un tetto, ma un senso. Quelli che animavano i laboratori, l'asilo, il frantoio (la metafora assoluta: gli uomini schiacciati, l'olio del mondo, che si riprendevano la vita col gesto più dignitoso, il lavoro). Quelli che venivano mandati lì dalle stesse autorità quando non sapevano come altro fare ("chiama Lucano, lui non dice no a nessuno..."), dalle burocrazie che poi hanno definito quella stessa disponibilità con un altro nome, "reato". Quelli che in ogni modo Mimmo Lucano ha cercato di proteggere, qualche volta sì, gabbando la burocrazia, i suoi pesi e le sue misure.

Mi ricordo – me la raccontò lui, la raccontò a una platea foltissima, di cui non gli importavano nulla gli applausi ma solo l'appello che poteva raccogliere: venite a Riace, non lasciateci soli – la storia di Becky, la giovane che sarebbe poi andata a morire nella baraccopoli di San Ferdinando (quella sì oscena, simbolo di tutto ciò che non possiamo fare alle persone, agli esseri umani, e invece lo facciamo nella totale impunità) e di cui lui aveva firmato la carta d'identità. Poi fu Riace a riprendersi il corpo di Becky, come si prendeva ogni corpo, ogni causa, ogni dolore.

Chi è stato a Riace, la Riace di allora, sa ogni cosa. Che su quella di oggi è passata una bella mano di calce per cancellare e normalizzare, a partire dal cartello d'ingresso che diceva "Benvenuti a Riace, paese dell'accoglienza", sostituito dal sindaco successivo, il leghista Antonino Trifoli (giudicato "ineleggibile" dal Tribunale perché dipendente comunale, ma poi tornato a svolgere le sue funzioni) con un pio "Benvenuti a Riace, il paese dei santi medici e martiri Cosimo e Damiano" (peccato che Cosma e Damiano, di origine araba e a loro volta migranti, fossero noti per accogliere e curare tutti, senza distinzione di razza, censo o religione: una storia d'accoglienza e integrazione che viene persino prima di quella del modello Lucano. Ma mica possiamo pretendere che gli avversatori di Lucano, specie se leghisti, lo sappiano, no?).

Chi ha visto anche una sola volta Mimmo Lucano parlare coi suoi paesani, dei suoi paesani– e per lui i confini del suo paese cominciavano dalla Turchia curda, da dove giunse il primo carico di disperati su un vascello che s'arenò sulla marina, e s'allargavano a ogni comunità o famiglia o persona in fuga da guerre e miserie – lo sa. Chi ha visto la condizione di povertà assoluta in cui vive Mimmo Lucano lo sa. Sa quanto la gragnuola di accuse (i reati contestati sono di associazione per delinquere, abuso d'ufficio, truffa, concussione, peculato, turbativa d'asta, falsità ideologica e favoreggiamento dell'immigrazione clandestina) suoni assurda e grottesca: peraltro, già la Cassazione aveva escluso che Lucano avesse intascato qualcosa. Il che è una specie di miracolo certificato, nell'Italia dei rapaci, dei "furbetti", dei mietitori di risorse.

Chi ha sperimentato anche per cinque minuti come l'unica parola che Mimmo Lucano è fisiologicamente incapace di pronunciare sia "io", e come si ritragga da quegli applausi e quell'adorazione per cui centinaia di altri, di politici di uomini pubblici, ucciderebbero (o pagherebbero Bestie e bestioline), lo sa. (A proposito, puntuale, il tweet dell'orfano della Bestia tuona contro chi in Calabria candida i condannati, dal momento che Lucano è candidato con De Magistris, con un unico programma politico ed esistenziale: "fare mille Riace". Evidentemente lo stesso principio non vale per i condannati che qualcuno vuol candidare al Quirinale. Ma si sa, la Lega è campione del mondo di doppiopesismo...)

Il procuratore di Locri Luigi D'Alessio aveva detto a maggio che "Non deve passare il principio del giustificazionalismo", e nessun fine nobile può giustificare la commissione di reati, e su questo siamo tutti d'accordo. Ci chiediamo solo come possa essere così gigantesca questa montagna di illeciti e reati realizzati – senza arricchimento personale, a quanto sembra ed è stato certificato – per quel nobile fine, talmente nobile che lo Stato non ha ritenuto, poi, di proteggerlo in alcun modo.

Ci chiediamo cosa voglia dire una sentenza così pesante: l'accusa aveva richiesto 7 anni e 11 mesi. Per tentare di stabilire una misura, un senso ragionevole – e non certo per tracciare impossibili paragoni tra situazioni e reati – ricordiamo che Luca Traini, il 31enne di Macerata che, in un folle raid razzista, sparò a caso e ferì sei persone solo perché avevano la pelle scura, è stato condannato a 12 anni per strage aggravata da odio razziale. Da poco ci è stato detto che trattare con la mafia non è reato.

Ora, vorremmo capire meglio (le motivazioni ci aiuteranno, la certezza di altri gradi di giudizio pure, la stima e l'amore verso Mimmo Lucano non meno) quanto d'ignobile, e da punire con questa severità, sia stato fatto per una causa nobile. E se ancora esistano, cause nobili, in questo Paese, e chi le difende.