Buonasera per modo di dire… è l’esordio della conferenza stampa di Giorgia Meloni. In cui, a differenza di Salvini, fa autocritica. Riconosce che “il centrodestra esce sconfitto, ne siamo tutti consapevoli, avere tre posizioni differenti ci penalizza e disorienta gli elettori”. A dire: è tempo di uscire da questo governo ingrato, se la sinistra ci sta lei è pronta per votare. Aleggia un’inevitabile freddezza reciproca. Tre partiti distinti e distanti, il fantasma di una coalizione, l’astensionismo crudele. Lo spoglio dei ballottaggi ritrae un centrodestra (a trazione sovranista) in crisi di nervi. Comprensibile: a Roma Gualtieri ha conquistato il Campidoglio con venti punti di vantaggio su Michetti, a Torino il civico moderato Damilano, dalla paternità contesa tra salviniani e giorgettiani, torna a casa con percentuali analoghe. Vantaggi al primo turno che si capovolgono in sconfitte: nella Varese feudo del ministro Giorgetti, nella Latina dove tanto si è speso il “proconsole” leghista Durigon, nella Savona in cui correva il civico Schirru sostenuto in primis dal Carroccio. Con buona pace della “surreale” (copyright Letta) conferenza stampa improvvisata da Salvini in partenza da Catanzaro, dove “la matematica non è un’opinione” dunque “abbiamo più sindaci di prima”, Lega e FdI perdono dappertutto.

A vincere nelle grandi città sono solo candidati forzisti e dintorni: dopo Occhiuto in Calabria, ce la fa (più faticosamente del previsto) per il quarto mandato Dipiazza nella Trieste degli scontri con i portuali, evitando il “cappotto” alla sua coalizione. Praticamente un eroe, e pazienza se con i No Green Pass coccolati dagli alleati è men che tiepido. A Benevento si conferma Clemente Mastella con una linea ferocemente anti-sovranisti. Berlusconi sente spirare il vento moderato e finanche forzista, ascolta l’ala del suo partito che vorrebbe i “ragazzi” più “generosi, inclusivi, temperanti”. Si prepara a scendere a Roma per incontrare gli altri due leader già questa settimana: battere il ferro finché è caldo, (ri) trovare un terreno comune. È un pomeriggio di down, silenzi, imbarazzi, dichiarazioni a mezza bocca, accenni di recriminazioni, leader latitanti, telecamere in attesa. Meloni segue lo spoglio “da casa”, Salvini è in Calabria, il Cavaliere ad Arcore. Il tribuno radiofonico da “Michetti chi” diventa a lungo “Michetti dove”: al suo comitato c’è lo staff, ci sono i cronisti, ma lui no. Si manifesta alle 18, non si toglie nemmeno il giaccone per far capire che è di passaggio: “L’esito è laconico, grazie a tutti, auguri al sindaco per un lavoro difficile, buona giornata”.

Sull’avventura che doveva riportare la Capitale ai fasti del Cesarismo uniti alla competenza di Bertolaso e alla cultura di Sgarbi cala uno sbrigativo sipario. Tra i leader è Salvini il primo a metterci (un pezzetto di) faccia: colpa dell’astensionismo, “i sindaci eletti da minoranze sono un flop per la democrazia”, certo era meglio vincere a Roma (vero, Giorgia?), ma alla fine quello che conta è il voto politico. Dove, Lega e FdI, hanno ancora il 40%: il punto sarà capire se hanno ancora una strategia comune. Marcello Pera, che pure gli vuole bene, pone il tema dell’identità: “Il caso Varese è emblematico, il centrodestra decida se è carne, pesce o cous cous...”. Dietro le quinte il brivido che serpeggia è quello: “Gli elettori di destra non sono andati a votare in massa – ragiona un abbacchiato dirigente meloniano – C’è da capire bene perché prima di fare altre mosse...”. Per mezza giornata, entrambi i leader hanno fischiettato: Arcuri, l’ordine pubblico triestino, il fascismo che esiste solo sui libri di storia, Lamorgese che Salvini torna a chiedere di incontrare e Meloni giudica “pessima”. Poi la leader FdI prova a giocare d’attacco: “È una sconfitta, la debacle è di M5S, ma per i prossimi candidati meglio profili politici”. Rimarca che FdI è primo partito, pronto per il voto politico. Batte sul tasto della campagna elettorale resa dalla sinistra “lotta nel fango” e basata sulla “criminalizzazione dell’avversario” che ha allontanato i moderati: “Nessuno può gioire se il sindaco di Roma è eletto dal 25% degli aventi diritto, la sinistra vuole gestire il potere sulle macerie, noi no”. Si riparte da uno a cinque, ma il derby interno con Salvini è invenzione giornalistica: “Noi al mattino ci scriviamo e commentiamo questa cosa surreale”. La leadership tuttavia resta tabù: “In questa fase serve più coordinamento”.

FEDERICA FANTOZZI