di MARCO FERRARI

Il 4 novembre 1921 la salma di un soldato senza nome fu portata al Vittoriano di Roma per diventare un simbolo nazionale di una nazione che aveva lottato per difendere la sua fresca identità risorgimentale. Purtroppo, una card per ricordare l'anniversario dei cento anni del Milite Ignoto è stata diffusa sui profili social del governo, ma la cartolina commemorativa conteneva diversi errori: mostrava infatti un gruppo di soldati americani e una mappa che non era quella italiana. Alcuni generali in pensione, che hanno notato lo strafalcione, sostengono che la cartina raffigurava la penisola iberica o la Colombia. È arrivata subito una nota di scuse della Presidenza del Consiglio: "Per un refuso durante l'attività di selezione è stata diffusa una immagine inesatta. Abbiamo provveduto a rimuoverla e sostituirla. Pur trattandosi di episodio verificatosi nel contesto di carichi di lavoro particolarmente intensi, saranno adottati provvedimenti. La Struttura di missione esprime sentito rincrescimento, scusandosi per l'errore compiuto".

Cambiata la cartolina, sono riprese le celebrazioni per ricordare quell'evento. Dopo la Prima guerra mondiale, molte nazioni belligeranti decisero di onorare i sacrifici e gli eroismi delle collettività nella salma di un anonimo combattente, caduto armi in pugno. In Italia l'allora Ministero della guerra dette incarico ad un'apposita commissione di esplorare tutti i luoghi nei quali si era combattuto e di scegliere una salma ignota e non identificabile per ognuna delle zone del fronte: Rovereto, Dolomiti, Altipiani, Grappa, Montello, Basso Piave, Cadore, Gorizia, Basso Isonzo, San Michele, tratto da Castagnevizza al mare. La commissione mista di ufficiali, sottufficiali e soldati, scartò le salme identificabili per la piastrina di riconoscimento o anche solo per le mostrine reggimentali. Vennero quindi selezionate undici salme, una sola delle quali sarebbe stata tumulata al Vittoriano. Nella basilica di Aquileia venne operata la scelta tra le bare identiche. A guidare la sorte fu chiamata una popolana di Trieste, Maria Bergamas, il cui figlio Antonio – disertore dell'esercito austriaco e volontario nelle fila italiane – era caduto in combattimento senza che il suo corpo potesse essere identificato.

Durante quella delicata cerimonia la donna, accompagnata da quattro decorati di medaglia d'oro, stringeva tra le mani un fiore bianco, quello che avrebbe dovuto gettare su una bara scelta a caso. Si sbagliò, travolta dall'emozione e dai singhiozzi. Invece del fiore, gettò il suo velo nero di "mater dolorosa" perfezionando senza volere il gesto. Il feretro prescelto fu trasferito a Roma su ferrovia, con un convoglio speciale a velocità ridotta sulla linea Aquileia-Venezia-Bologna-Firenze-Roma, ricevendo gli onori della folla lungo gran parte del tracciato e alle fermate alle diverse stazioni con donne colme di pianto per i figli e i mariti perduti per sempre e i giovani inginocchiati a tributare il valore del ricordo del sacrificio per la patria. Il convoglio, condotto da ferrovieri decorati al valore militare, era composto da sedici carri stracolmi di fiori e corone, quello con la bara era segnato da un verso dantesco «L'ombra sua torna ch'era dipartita» con le date MCMXV-MCMXVIII.

Il re in testa, con alle spalle le rappresentanze dei combattenti, delle vedove e delle madri dei caduti, le bandiere di tutti i reggimenti attesero l'arrivo del convoglio alla stazione da cui partì un lungo corteo diretto alla basilica di Santa Maria degli Angeli con il feretro scortato da dodici decorati di Medaglia d'Oro. Anche all'interno della chiesa migliaia di persone resero omaggio ai poveri esti umani del combattente. La manifestazione conclusiva si tenne proprio il 4 novembre 1921 con una solenne cerimonia a cui parteciparono più di trecentomila persone provenienti da ogni parte d'Italia e più di un milione di italiani distribuiti sulle strade al passaggio del corteo da Via Nazionale, dove erano schierati i soldati di tutte le armi. Imponente l'immagine di Piazza Venezia imbandierata di oltre 300 vessilli e una immane picchietto d'ordinanza. Un soldato semplice pose un elmetto sulla bara prima della definitiva tumulazione nel monumento simbolo dell'Italia unita con i soldati sull'attenti e il popolo in ginocchio.

Da quel momento il Vittoriano prese il nome di altare della patria, associato al 4 novembre, Giornata dell'Unità Nazionale e delle Forze Armate già dal 1919 dopo la vittoria italiana nella Prima guerra mondiale, evento bellico considerato completamento del processo di unificazione risorgimentale, visto che permise all'Italia l'annessione di Trento e Trieste. Il 4 novembre è la data dell'entrata in vigore dell'armistizio di Villa Giusti, firmato il 3 novembre 1918, che sancì la resa dell'impero austro-ungarico. Il Vittoriano, invece, venne inaugurato in una giornata piovosa, il 4 giugno 1911 in omaggio a Vittorio Emanuele II considerato all'epoca il padre della patria, anche se erano stati altri a forgiare l'unità del Belpaese, da Garibaldi a Mazzini, da Cavour a Bixio. In quel tempio savoiardo piazzato nel cuore di Roma dominava la statua equestre di Vittorio Emanuele al centro della prima terrazza, simbolo della grandezza ritrovata dalla nuova capitale strappata al papa, edificato con vent'anni di lavori, sbancando una parte della collina del Campidoglio, utilizzando 40 mila metri cubi di marmo detto botticino proveniente da una cava in provincia di Brescia, patria del ministro Giuseppe Zanardelli.

Bresciane erano pure le imprese che avevano messo la manodopera a disposizione della grande impresa. Un simbolo della laicità dello stato nascente da contrapporsi al potere temporale dei papi, da poco terminato, limitato adesso alla basilica di San Pietro. Insomma, un altare della nazione da contrapporre all'altare papale con le diciture "Patriae Unitati, Civium Libertati" (All'unità della patria, alla libertà dei cittadini), in omaggio a quei principi della Giovane Italia che avevano forgiato l'ideologia risorgimentale dando poi alla casata dei Savoia lo scettro del potere, secondo il volere dei francesi, ideatori e fautori fin dai tempi di Napoleone Bonaparte di una penisola italica unica e unitaria. Non a caso Giovanni Giolitti aveva definito quel colosso bianco una «epopea scritta sopra pagine di marmo e di bronzo che sfidano i secoli».

Ma già negli anni Venti, dopo la distruzione della guerra, quel monumento non divenne più il trionfo savoiardo, ma l'emblema di un popolo che si era sfiancato in trincee e montagne per difendere i confini della nascente e ambiziosa nazione che, a Caporetto nel novembre del 1917, aveva rischiato di capitolare. E in onore a quel popolo umile, analfabeta, disposto al sacrificio si doveva pur rendere omaggio con quel Milite Ignoto che rappresentava tutti gli italiani morti e feriti al fronte. Nel giro di qualche decennio il Vittoriano finirà di essere il tempo savoiardo per rimanere unicamente, al termine del secondo conflitto mondiale, l'ultima casa del Milite Ignoto, un povero fante contadino nato in una parte d'Italia sconosciuta, morto senza volere in una terra a lui estranea sino all'arrivo al fronte. Una guerra che proprio a Caporetto ebbe una svolta, là dove le truppe italiane collassarono tra il 24 ottobre al 12 novembre 1917. Il dopo Caporetto si chiama Piave. Sulla linea Grappa, Montello, Piave avvenne il miracolo italiano.

Il paese seppe reagire sul piano morale e militare, anche se i dati di quelle due settimane erano da brividi: 22 divisioni perdute, un fronte accorciato da 600 a 400 chilometri, un esercito ridotto a 700mila combattenti. Per un paradosso della storia nelle stesse ore in cui vi era stato l'attacco austro-ungarico e tedesco il ministro della Guerra Gaetano Giardino parlando al Parlamento si diceva sicuro della preparazione delle nostre truppe: «Venga pure l'attacco! Noi non lo temiamo». Era il primo pomeriggio del 24 ottobre 1917, a quell'ora il nemico era già arrivato a Caporetto e ripristinato la antica denominazione di Kobarid. Tutti i deputati, escluso i socialisti, applaudirono il ministro Giardino alzandosi in piedi. Non sapevano che migliaia di soldati erano già morti, uccisi dal gas, dai cannoni e dai fucili nemici. Non fu facile organizzare la nuova linea di difesa che si snodava dall'Altopiano dei Sette Comuni alle foci del fiume Piave, priva di grandi fortificazioni, linee di trincee, reticolati e batterie di artiglieria. A risollevare la truppa arrivarono i giovani del 1899 portando un nuovo entusiasmo.

Davanti c'era un esercito di circa un milione di soldati, 53 divisioni, rinvigorito dal fresco successo militare, andato oltre ogni previsione. La battaglia iniziò il 10 novembre sull'Altopiano di Asiago dove le postazioni di Gallio e Monte Ferragh cedettero, ma poi tornarono in mano italiana grazie all'intervento delle brigate Toscana e Pisa, dei bersaglieri del 5° reggimento e del 16° reparto d'assalto. Lo scontro si sviluppò dal 10 al 20 novembre e dal 4 al 25 dicembre 1917, premessa fondamentale alla seconda battaglia che si terrà nel giugno 1918. Lo sforzo austro-ungarico e tedesco per schiacciare definitivamente l'esercito italiano fallì. La battaglia di arresto concluse una drammatica annata per il fronte italiano. La consapevolezza della disfatta si fece pian piano visibile e palpabile come la volontà di reazione estesa a tutte le forze parlamentari e a tutte le forze sociali, inclusi gli operai delle fabbriche. E il fronte interno reagì mettendo in moto uno sforzo industriale incomparabile con al centro grandi imprese come l'Ansaldo e la Fiat.

Dopo il dolore e lo smarrimento per quanto accaduto a Caporetto il Paese capì che la nostra non era una guerra espansiva ma, a quel punto, una guerra difensiva. Ora si doveva combattere per mantenere la Patria, la sua integrità, già compromessa con l'occupazione del Friuli e di parte del Veneto, per tutelare la nostra storia e i nostri diritti. Da lì prese corpo la forza di resistere, di riorganizzarsi, di propiziare l'avanzata di Vittorio Veneto sconquassando per sempre gli Imperi Centrali. Dopo Caporetto la penisola era un territorio che rischiava l'invasione, defraudato di una parte importante, da cui provenivano gran parte degli Alpini, uno dei corpi essenziali dell'esercito regio. La consapevolezza dell'identità nazionale, per la prima volta si diffuse tra l'esercito e nel paese. Soldati di diversa estrazione etnica, che neppure riuscivano a capirsi e a intrecciare i loro usi e costumi, si sentirono uniti, come le forze politiche che diedero vita ad un governo di unità nazionale.

L'entrata in campo del generale Diaz riuscì a dare vigore all'esercito con una mitigazione del pesante regime disciplinare, con uno sforzo propagandistico a difesa della Patria e con una attenzione privilegiata alle condizioni della truppa. A ciò si deve aggiungere un atteggiamento difensivo dell'esercito senza inutili stragi o effimere avanzate, senza grandi battaglie campali o conquiste di vette innevate difficili da tenere. Prima dell'ottobre del 1918 ci si limitò a contenere e annientare gli attacchi nemici senza lanciare offensive. Gli austro-ungarici fallirono l'assalto decisivo sul Piave nel giugno del 1918, mentre i tedeschi si dissanguarono sul fronte occidentale. Le composite etnie dell'Impero si sentirono logorate dalla guerra, non più unite ed erano attraversate da nuove spinte autonomistiche che coinvolgevano le popolazioni locali, sfiancate da anni di conflitti, privazioni, requisizioni e dalla leva obbligatoria che toglieva le braccia migliori dalle campagne e dall'industria. Di qui la decisione italiana di riprendere l'offensiva che partì dal monte Grappa nell'autunno del 1918, un anno dopo Caporetto e che si concretizzò in quella che è chiamata la battaglia di Vittorio Veneto. L'armistizio del 3 novembre e la cessazione delle ostilità il giorno successivo, sancito dal generale Armando Diaz, portarono un sollievo nel Paese dopo l'infausto 1917 che resterà per sempre l'anno di Caporetto.   

IL RITORNO A ROMA A BORDO DI UN TRENO STORICO

Un lungo viaggio rievocativo a un secolo di distanza: la bandiera che avvolse la bara del Milite ignoto torna ora a Roma a bordo di un treno storico trainato da una locomotiva a vapore, la stessa di 100 anni fa, partita dalla stazione di Cervignano e accolta a Roma dal Presidente della Repubblica che il giorno dopo volerà ad Aquileia e Redipuglia. Ad Aquileia il ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, ha inaugurato il Cimitero degli Eroi assieme al presidente della Regione, Fedriga, al sindaco, Zorino, e a decine di autorità locali. "Anche oggi il paese riparte, vuole ripartire, vuole riguardare al proprio futuro ma lo può fare contando sui valori di coesione e unità che il Milite ignoto ricorda" ha affermato Guerini. Ad Aquileia, la città madre, diventata fulcro delle celebrazioni di questo centenario del Milite ignoto, riposa la madre d'Italia, Maria Bergamas. A lei toccò il compito di designare la bara da traslare al Vittoriano, nel 1921, e volle essere sepolta accanto agli altri 10 figli che invece non furono scelti. E a lei è dedicato il docufilm "La scelta di Maria", prodotto dalla casa di produzione Anele, in collaborazione con Rai Cinema, Fondazione Aquileia, Comune di Aquileia e Istituto Luce-Cinecittà, che verrà trasmesso in prima serata su Rai Uno giovedì 4 novembre diretto da Francesco Micciché con protagonista Sonia Bergamasco.