Matteo Salvini (foto Depositphotos)

di Mattia Feltri

Il dissolvimento dei più elementari presupposti della politica si nota in ogni dettaglio. Il dibattito interno alla Lega, per esempio, dopo la sbalorditiva prova quirinalizia, si concentra davanti a un bivio: Matteo Salvini dovrà contribuire alla ricostruzione di un patto di centrodestra, con berlusconiani e meloniani, o dovrà condurlo in prossimità della maggioranza Pnrr (definizione di Giuliano Urbani) e in senso non tattico ma strategico? Dovrà dunque conservare un’idea maggioritaria della legge elettorale e coltivare la prosecuzione del bipolarismo o dovrà prendere in considerazione un ritorno al proporzionale che lo svincoli dagli obblighi di fedeltà con i sovranisti italiani ed europei? Se tutto questo vi pare troppo complicato: il Salvini di domani dovrà essere lo scamiciato del Papeete o l’incravattato del governo Draghi?

Il problema sta già nella domanda. Il problema, non il dilemma: Salvini potrà andare di qui o di là, farà le sue valutazioni, come sappiamo subordinate dall’andamento dell’ultimo tweet; il problema è che la Lega cerca di condizionare e aspetta la scelta del suo leader ma in una dimensione in cui i piedi stanno in basso e la testa in alto, Salvini avrebbe già fatto la sua scelta, da sempre, e il partito non avrebbe nulla da aspettare. Perché non si tratta di decidere delle regole della Dad o della revisione del catasto, si tratta di decidere che idea si ha del mondo, come lo si intende affrontare, governare e cambiare: da europeisti o da orbaniani? Da sovranisti o da autonomisti? Da sostenitori di Draghi e del draghismo o di Putin o del putinismo?

Va bene che stiamo parlando di Salvini, che fu secessionista e giovane comunista ed è diventato centralista e nazionalista, e che in questa legislatura è stato di volta in volta alleato o avversario di qualsiasi partito presente in Parlamento, ma forse non si deve esagerare. In una dimensione in cui i piedi stanno in basso e la testa in alto, Salvini avrebbe già detto quale Lega ha in mente, e se a qualcuno dentro la Lega non andasse bene, organizzerebbe la controproposta attorno a un leader alternativo e tenterebbe di farla diventare maggioritaria. È così che funziona la politica.

E siccome, mi pare, è lo stesso Salvini ad alimentare la sua ambiguità – un giorno da una parte e un giorno dall’altra – e a soffrirne particolarmente sono i più ragionevoli, da Giancarlo Giorgetti a Luca Zaia, perché vedono il loro partito ridotto alla vasta inaffidabilità, forse è arrivato il momento di mutare schema. Fra un anno si vota, se le cose vanno come devono andare, sennò anche prima, e poiché quel giorno Salvini magari starà sul pero magari sul melo, chissà, per poi scendere e risalire il giorno dopo, chi crede che queste esibizioni da influencer facciano il male della Lega e del Paese, ha il dovere di provare a prendersi la leadership in una sfida aperta e democratica. Questa è la politica. Sennò si tengono Salvini e se lo godono.