di Franco Esposito

Vitalizi e arretrati, gli ex senatori continuano a bussare a denari. Presentano ricorsi in continuazione, l'ultima loro richiesta è arrivata fino alla Corte Costituzionale, che si esprimerà sul taglio operato dal governo nel 2019. Diventano di conseguenza a rischio risparmi per 67 milioni di euro l'anno. Giuliano Amato, presidente della Corte Costituzionale, è stato più volte ministro della Repubblica e per cinque volte eletto in Parlamento. Anche lui ha maturato il vitalizio. Alla scadenza del mandato, a settembre, potrebbe succedergli Augusto Barbera, che vive il medesimo conflitto di interessi: deputato anche lui per cinque legislature. 

Due esempi di quelli che l'hanno spuntata, anche se a prezzo di enormi fatiche, si fa per dire. A forza di ricorsi, gli ex parlamentari sono pronti a riprendersi quello a cui avevano dovuto rinunciare per un paio d'anni. Il vitalizio agognato sforbiciato dal 2019: metà di quel taglio, 67,8 milioni di euro all'anno, fa 339 milioni a  legislatura, tra Camera e Senato. Il cospicuo malloppo sta per rientrare nelle tasche di ex parlamentari e senatori. 

La Consulta sarà chiamata a decidere se i ricorrenti hanno diritto pure agli arretrati. Intanto, il Parlamento sta ricalcolando l'importo degli assegni degli ex deputati. Un atto non più eludibile, dopo che il tribunalino interno presieduto dal dem Alberto Losacco ha smontato clamorosamente la delibera sui tagli con decisione perentoria. Cancellata per i beneficiari del trattamento “la necessità di dover dimostrare di non percepire altri redditi di importo superiore all'assegno sociale e di avere patologie di una certa gravità per ottenere una mitigazione della stretta”. In parole molto molto povere, in Parlamento se la suonano e la cantano da soli. 

Il tribunalino interno è andato oltre: bocciati a dicembre i criteri che erano alla base del taglio. E la scorsa settimana gli osservatori meni disattenti hanno scoperto cosa costa “superare l'algoritmo messo a punto dall'Istat e dall'ex presidente dell'Inps, Tito Boeri”. Proprio quell'algoritmo che aveva abbattuto originariamente già importi. In particolare per gli ex deputati che hanno goduto più a lungo del vitalizio calcolato con il metodo contributivo. Qualcosa come 20 milioni di euro all'anno. Risulteranno di conseguenza più piene le tasche di ex deputati e senatori e dimezzati i risparmi per l'amministrazione di Montecitorio. Nella misura di 45,7 milioni. 

La suddetta amministrazione si è riservata di proporre appello al collegio di secondo grado presieduto da Andrea Colletti.  L'ex M5S passato ora in Alternativa non sembra propenso ad allargare il fronte della delibera sui tagli. Ma in Parlamento si perde il conto di quelli pronti a scommettere sul successo del ricorso della Camera. 

Stessa musica per quanto riguarda il Senato. Infatti, il taglio in vigore dal primo gennaio 2019 è stato annullato. Come e da chi? Ha provveduto la giustizia interna di Palazzo Madama, destinataria delle lamentele degli ex senatori concordi nell'urlo “sono stati lesi i nostri diritti”. La sentenza purtroppo definitiva cancella risparmi inizialmente ipotizzati per 22 milioni di euro all'anno. Destinati a diventare la metà, trattandosi di una decisione sorella rispetto a quella di Montecitorio. Come dire, gli ex comunque hanno fatto il colpo, puntando addirittura a fare bingo. Grazie a chi? Alla Corte Costituzionale, chiamata a decidere se il Senato dovrà pagare pure gli arretrati. 

Gli arretrati come? Le differenze non pagate dall'entrata in vigore della delibera. Ma la decisione più importante riguarda “il ricalcolo contributivo: è stato fin dal principio legittimo nei suoi presupposti? ”. Facile prevedere belligeranza assoluta. I giuristi evitano per il momento di esprimersi sull'esito finale della tenzone. 

Luigi Vitali, di Forza Italia, è il presidente del Consiglio di Giurisdizione. Ne fanno parte i qualità di componenti  Valeria Valente del Pd, Alberto Balboni di Fratelli d'Italia e Pasquale Pepe e Ugo Grassi, leghisti. Il Consiglio si è già espresso nella seguente maniera:  “Abbiamo ritenuto infatti non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della legge del 1994, nella parte in cui, nel sopprimere qualsiasi regime fiscale particolare per i vitalizi degli ex parlamentari, non prevede altresì che queste prestazioni vanno disciplinate nel rispetto dei principi generali in materia previdenziale”. 

Il legislatore ha posto limiti in ordine alla materia, in particolare “nell'individuare i parametri per determinare i vitalizi e con essi i limiti per un eventuale adeguamento”. Ma è niente, comunque non è tutto nell'ambito nella mancanza assoluta di un civile ritegno.  Il Consiglio di Giurisdizione ha concluso nella seguente discutibile maniera: “Egualmente si ritiene non manifestamente infondata la questione di legittimità della delibera di Palazzo Madama del 2018 nella parte in cui viola i principi di proporzionalità e ragionevolezza nella rideterminazione retroattiva degli assegni”. 

Spingendosi al di là del limite della decenza, alcuni ex senatori avevano fatto ricorso e chiesto di aumentare gli assegni “con l'applicazione integrale del metodo contributivo”, come ai tempi belli soprattutto per loro. Su questo tema, fortunatamente, non dovrà pronunciarsi la Corte Costituzionale. Come argine, è il minimo.