di Massimo Jaus
Ci ha lasciati Tony May, il “re” della cucina italiana negli Stati Uniti. I suoi ristoranti a New York sono stati meta del jet-set internazionale.
Il colpo di genio Tony May lo ebbe nel 1971 quando era il general manager della Rainbow Room: organizzare una manifestazione a New York con gli chef dei migliori ristoranti italiani. Tony May si inventò così “Italian Fortnight” che per due settimane nella grandiosa bowl room al 65mo piano del grattacielo al Rockfeller Center fece conoscere la vera cucina italiana agli americani. Sette chef dei più prestigiosi hotel della CIGA, dal Baglioni al Danieli, dall’Excelsior al San Domenico, prepararono a New York i piatti classici della gastronomia italiana. A capo del gruppo c’era l’Executive Chef dell’Excelsior. Fu un successo senza pari. “Avevo capito – disse nel corso di una intervista – che gli americani erano alla ricerca della cucina italiana di qualità”.
Era duro Tony quando parlava dei ristoratori italiani degli Anni Sessanta a New York. “Nessuno di loro aveva avuto vere esperienze nell’alta cucina tradizionale italiana. Quasi tutti prima di emigrare facevano un altro lavoro. Poi hanno aperto i ristoranti qui, usando prodotti locali cercando di interpretare il gusto della clientela americana. Ma questa non era cucina italiana. Erano invenzioni, anche di successo. Usavano i prodotti che trovavano, ma ovviamente non è la stessa cosa”.
Tony non era uno chef, ma un manager. Il lavoro della cucina in tutti i suoi ristoranti lo ha lasciato ai cuochi, quelli veri: Daniel Boulud, David Bouley, Odette Fada, Sandro Fioriti. Ha aperto tanti ristoranti: il Palio, San Domenico, Sandro, La Camelia. Tony May Hostaria a Port Chester, “perchè – raccontava – andavo a giocare a golf li vicino e mi piaceva il forno a legna che c’era in quel posto”. Due altri al World Trade Center: Gemelli e Pastabreack distrutti nell’attentato dell’11 settembre.
“In casa eravamo otto fra fratelli e sorelle – raccontava – abitavamo a Torre del Greco. Mio padre era capitano di un mercantile. Durante la guerra andammo a Taranto. Decisero bene i miei genitori perchè mio nonno che non ci volle raggiungere morì sotto i bombardamenti nel 1943. Non sono mai stato cuoco. Mia madre non sapeva cucinare. Ho fatto tutta la gavetta: a 17 anni facevo il cameriere di sala sulla Castel Bianco e la Castel Felice due navi che attraversavano l’atlantico da Napoli a Buenos Aires. Non erano navi da crociera. Erano navi stracolme di emigranti. Bastimenti che non avevano nulla a che vedere con i liner come il Rex o la Raffaello. Alcuni anni dopo passai alla Italian Line e nel maggio del 1960 arrivai a New York. Mi innamorai subito della città. Cominciai a fare il cameriere a “The Colony” alla 63ma Strada a Manhattan, poi passai al “Club 21”, al Del Monico e Orsini fino a che nel 1964 fui assunto dalla Rainbow Room come “captain”, dopo un po’ divenni il maitre’d e poi il general manager. Sotto di me sono passati grandi chef. Tra loro anche Anthony Bourdain”.
Nel raccontare le sue esperienze di vita si infervorava. “Il mio nome in Italia era Antonio Magliuolo. Lo cambiai perchè non lo sapevano pronunciare qui negli Stati Uniti. Scelsi May, il mese che arrivai negli Stati Uniti. E’ il mio nome d’arte ed è più semplice pronunciarlo. Così l’ho cambiato”. Ed era un po’ buffo quando si presentava con i suoi fratelli. “Piacere, Tony May – diceva stringendo la mano – questi sono i miei fratelli Luciano e Mimmo Magliuolo”, anche loro nel settore dell’alimentazione con “Buon Italia” al Chelsea Market.
Dopo il successo dell’“Italian Forthnight” prese in gestione la Rainbow Room. Aveva capito che per fare la cucina italiana “vera” doveva importare cuochi italiani o cuochi che avevano imparato l’arte in Italia e per questo fondò nel 1979 il Gruppo Ristoratori Italiani, un’associazione di ristoratori che aveva come obiettivo il miglioramento dell’immagine della cucina italiana attraverso l’educazione – a livello di ristorazione nei ristoranti – e a livello istituzionale nelle scuole. All’inizio venivano organizzati dei viaggi educativi per imparare come si evolvevano i cibi e le usanze culinarie in ciascuna delle regioni italiane. Ogni anno portavano giornalisti americani in Italia affinché conoscessero il cibo di tutte le regioni d’Italia, in modo che potessero sperimentarlo e vedere i cambiamenti nei gusti del modo di mangiare degli italiani. Ma portavano anche giovani chef americani a fare specializzazione nelle scuole di cucina italiane.
Due anni fa aveva lasciato l’attività. Dopo la chiusura del suo ristorante SD 26 la figlia Marisa che per anni è stata la sua più fedele assistente si è trasferita in Italia e lui “veleggiava” tra Marrakesh, Miami e New York.
Nel 2006 aveva pure creato l’Italian Culinary Foundation, con l’obiettivo di coordinare programmi con le scuole di cucina di tutto il mondo, portando chef e prodotti dall’Italia negli Stati Uniti fornendo a studenti e docenti esperienze di apprendimento pratico.
Un visionario che ha cambiato l’immagine e la cultura della cucina italiana negli Stati Uniti, che è stato la punta di diamante per aprire la strada agli altri imprenditori alimentari italiani come Cipriani, Pino Luongo, Sirio Maccioni, che dopo di lui hanno dato il giusto sapore alla cucina tradizionale italiana negli Stati Uniti.
Massimo Jaus
(La Voce di New York)