di Vito Massimano

 

La stella di Mario Draghi si sta lentamente spegnendo. E mentre per via del Covid l’ex Supermario lavora da remoto (ma non ditelo a Renato Brunetta), la politica accarezza l’idea di celebrare i ludi elettorali il prima possibile senza aspettare la scadenza naturale della legislatura.

A dire il vero anche Sergio Mattarella starebbe valutando le elezioni anticipate, sia per evitare una campagna elettorale permanente sia perché il cosiddetto “Governo dei migliori” si è rivelato meno determinante di quanto si potesse immaginare all’atto dell’insediamento. Sic transit gloria mundi: tutti pensavano che questo Esecutivo sarebbe stato una spada fiammeggiante e invece – vuoi a causa un sistema di Governo annacquato e vuoi a causa di una composizione spartitoria dei posti nel Consiglio dei ministri – si è rivelato uno spadino senza infamia e senza lode. Il punto cruciale, quindi, è che stiamo lentamente scivolando verso il voto: i Cinque Stelle sono al lumicino, la galassia progressista è in stato comatoso ma il centrodestra, lungi dall’approfittare del vento in poppa nei sondaggi, si è messo a litigare più del solito con una logica veramente dilettantesca.

I problemi sul tavolo sembrano in sostanza due e prescindono da variabili di tipo politico o programmatico. Il primo è da rinvenire nel fatto che la parte governativa della coalizione – nutrendo paradossalmente sfiducia nella politica e speranza nei tecnici – ha puntato tutto sull’effetto di trascinamento dell’azione draghiana rimanendo con un pugno di mosche in mano visto che l’attuale premier non è che abbia proprio conquistato gli italiani. C’è una parte della politica (quella targata centrodestra) che ha avuto quindi sfiducia in se stessa e aveva ragione: al netto del mezzo fiasco di Mister Bce, il contributo fornito dai cosiddetti ministri politici non è che abbia proprio fatto sognare. Se prendiamo ad esempio Giancarlo Giorgetti (che sulle questioni strategiche non ha toccato palla) o Renato Brunetta (che con la guerra allo smart-working e ai fannulloni nella Pubblica amministrazione ha fatto incazzare tutti), era praticamente scontato che l’ala governista del centrodestra avrebbe avuto una flessione nei sondaggi. Ed era altrettanto chiaro che – rebus sic stantibus – l’opposizione di Giorgia Meloni avrebbe segnato un balzo clamoroso nelle preferenze degli italiani quantomeno per differenza.

Adesso la parola d’ordine è distinguersi sia all’interno del Governo e sia all’interno della coalizione, cercando di alzare la voce e recuperare il voto di protesta ormai diretto a vele spiegate verso Fratelli d’Italia. Operazione fuori tempo massimo e di una tale ipocrisia da non generare l’effetto propagandistico sperato. E tutto ciò ci porta dritti verso il secondo problema che affligge la coalizione di centrodestra o almeno la sua parte governista: la paura. Paura di ridursi al lumicino e di dover battere i tacchi davanti a Giorgia Meloni, paura di aver sprecato (almeno nel caso della Lega) un patrimonio elettorale importante, paura che questo sia l’inizio di un declino politico del proprio partito e di conseguenza personale (prima o poi per Matteo Salvini arriverà la resa dei conti in via Bellerio).

La paura genera confusione ma la confusione genera panico e scelte sbagliate: come quella di creare un asse preferenziale tra Lega e Forza Italia nel tentativo di arginare i numeri della terza gamba del centrodestra, facendo interdizione su tutto: dalla scelta dei candidati alle Amministrative in Sicilia fino all’ostracismo conclamato esteso fino all’ultimo Consiglio comunale della più piccola comunità d’Italia. Una sorta di bailamme molto simile a quello che poi generò la scelta infausta di Enrico Michetti come candidato sindaco a Roma.

Il centrodestra avrebbe la possibilità storica di stravincere le prossime elezioni politiche (in qualsiasi momento esse si dovessero celebrare) ma invece litiga. E intanto la gente vede distanza, non certo sintesi e men che meno un progetto, una proposta, una filosofia. Vede le solite vecchie carampane buone per tutte le stagioni, le barzellette di nonno Silvio Berlusconi, la demagogia di Matteo Salvini e il solito circo dei “miracolati” composto da nani, ballerine e lecchini. Nemmeno l’ombra (e lo scriviamo da anni) di una faccia nuova o uno straccio di ricambio della classe dirigente ormai a livelli veramente sconfortanti.

Tutto ciò non potrà cambiare di qui a qualche mese per cui sarà un bagno di sangue. Alla fine, tutto si risolverà come sempre: il centrodestra sfiorerà la maggioranza ma non la otterrà, urlando al tradimento del verdetto delle urne. Il Partito Democratico si ritroverà nuovamente al Governo senza aver vinto le elezioni e un nuovo tecnico ci dimostrerà che votare è un esercizio inutile, perché abbiamo una classe politica completamente inadeguata.