Mino Raiola

di Franco Esposito

Luciano Moggi il primo a parlarmene. “Come manager di calciatori, in giro c'è un solo fenomeno, Fidati di me, l'ho conosciuto di persona, non dimenticarne il nome. Farà strada, diventerà il migliore, il numero uno”. Una raccomandazione datata anni Settanta, la preistoria degli agenti di calcio. L'invito a non dimenticare a mandare a memoria quel nome, Mino Raiola.
E io, perplesso, scettico, chiaramente miscredente. “Ma come, proprio lui? Non è possibile, si presenta male, veste da schiaffi, un casual esagerato e pasticciato, e fa il pizzaiolo, con tutto il rispetto”. Lo chiamavano appunto il pizzaiolo, Carmine Raiola detto Mino, campano di Nocera Inferiore. Anzi di Angri.
Profetico Moggi, che s'intende ovviamente di gente di calcio. Consumato brevemente da un male incurabile, ribelle anche alla forza e alla voglia di vivere dell'agente più temuto e rispettato dai club calcistici di tutto il mondo, Mino Raiola è diventato – e lo è stato a lungo – il numero Uno degli agenti di calciatori. Il top, e non solo per i guadagni realizzati in carriera.
Lascia un'autentica ricchezza e una scuderia di top calciatori. Numeri Uno nella loro professione, esattamente come il manager che sapeva come inchiodare, convincere, battere qualsiasi club, a beneficio dei suoi assistiti.Il numero Uno, come profetizzato da Lucianone. Mino Raiola venuto dal nulla, partito infante, anzi in fasce, dalla provincia di Napoli. Cameriere ad Amsterdam in una delle pizzerie del papà, titolare di una catena di locali. Quello della capitale frequentato dai calciatori dell'Ajax, conosciuti come i lancieri.
Mai sfornata una sola margherita, serviva pizze, si pizze, giostrando tra i tavoli, il giovane Mino, grassoccio, non un modello di eleganza nel senso più vasto del termine, ma con l'uzzolo degli affari. Un incolto, il giovanotto addetto anche alla contabilità della pizzeria? Assolutamente: aveva conseguito il diploma, si era iscritto all'università, e alla fine parlerà in maniera corretta sette lingue. La sua grande passione di straordinario poliglotta, così come la fissazione per il teatro e l'opera lirica. L'inglese imparato da bambino guardando Disney in originale. E il tedesco, il francese, lo spagnolo, il portogheSe. Gli uffici di agente di calciatori con succursali in mezzo mondo, anche a Dubai.
Autentici dribbling, qua e là, per aggirare eventualmente il fisco. O ammorbidire la durezza sfuggendo all'impatto diretto. Mossa necessaria, i guadagni sono stati cospicui. Diciamo pure immensi, e non andiamo troppo lontani. Operazioni clamorose e ricche ne ha firmate in quantità industriali, con il suo fare da guascone così marcato da dare l'impressione di scomposta arroganza. Laddove era magister nel mettere il calciatore da trasferire nella condizione ideale per stare contro la società proprietaria del cartellino, e l'altra, il club acquirente, a svenarsi per averlo alle proprie dipendenze.. E lui, ovviamente, prendeva ricche parcelle da entrambe le parti. Ricordate il passaggio di Paul Pogba, uno dei suoi celebri assistiti, dalla Juve al Manchester.
Ebbene, in quella stessa sessione di calciomercato, si dice che abbia incassato in parcelle qualcosa come ottantasette milioni. Una cifra sbalorditiva in un mese, a conferma di chi fosse il vero numero numero Uno. L'arrogante, prepotente, sfacciato, Mino Raiola. Il grossier che mai ha amato curare abbigliamento e forma. Era tutto sostanza, il migliore nel suo lavoro, credetemi. Millanta gli affari, clamorosi business. L'inventore della frase riferita a tizio o a caio, comunque a uno e, a gioco lungo, a tutti i suoi assistiti a partire da un certo livello fino a quello altissimo. “Il ragazzo ha il mal di pancia”. E lui intento a smussare, avvicinare, a trovare il punto dell'accordo. Un tessitore di trame commerciali. Gli istinti mercantili del napoletano e dell'olandese sublimati alla grande.
Ne hanno goduto i suoi migliori calciatori, oltretutto suoi puntuali, convinti, inesauribili adoratori. Zlatan Ibrahimovic, Gigio Donnarumma. Paul Pogba. Haaland, e centinaia di altri: trasferimenti che hanno reso ricchi tutti quelli che ne hanno seguito le indicazioni, la traccia, la tattica in grado di produrre le condizioni necessarie al passaggio da una società all'altra. Ci sapeva fare, e l'ha saputo fare: non mi risulta che abbia fallito un solo obiettivo. Cronaca e storia possono testimoniare.
Aveva giocato a calcio, poca roba però. La passione bambina spesa nelle giovanili dell'Haarlem, qualche gol e punto. Poi, a venti anni, responsabile del settore giovanile del club e direttore sportivo: sfruttata alla grande la presenza abituale del presidente dell'Haarlem nella pizzeria di famiglia. Ibra, Bergkamp, e tutti, proprio tutti, clienti e amici, calciatori e poi suoi assistiti, grazie anche a una discreta margherita o a un ripieno con mozzarella e salame. Pensò di dirottare Bergkamp verso Napoli, e c'era quasi riuscito. Ma l'olandese pallido conviveva con due problemi: si è sempre rifiutato di viaggiare in aereo e non riusciva a dormire da solo. L'Inter dovette prendere lui e Jonk, non il massimo il centrocampista di nome Erik. A Napoli si era offerto di seguirlo l'esterno sinistro del Psv Eindhoven e della nazionale olandeser.
Pavel Nedved tra i primi suoi assistiti, trasferito dallo Sparta Praga alla Lazio per nove miliardi di lire. Il biondo volante fu poi sistemato a casa Juventus, per settantacinque milioni. A Zlatan Ibrahimovic, allora all'Ajax, diede dello “stronzo” al primo incontro. Il curioso strano preludio alla costituzione di un monolite. Sodali in tutto, Ibra e Mino eternamente disinteressato al look. Come dire, parlate pure male di me, non mi importa un tubo. Aveva un solo interesse, fare affari e farli fare ai suoi assistiti. Pogba, Haaland, Balotelli, De Ligt, Donnarumma, De Vrij, Verratti, Gravenberch, Moise Kean.
Raiola il ruolo del manager lo ha cambiato, rivoltandolo a mo' di pedalino. Spregiudicato e provocatorio ne ha dette quattro alle autorità dello sport, tacciando qua e là anche di “mafia”, non solo di incompetenza. Del calcio italiano non è che avesse grande stima. Laddove era stimato da Forbes, che lo ha indicato come quarto uomo più ricco al mondo nel 2020 con una fatturato du 84,7 milioni di dollari e un giro d'affari che pare sfori i 500 milioni di euro.
Il paperone diventato piccino solo di fronte alla malattia, troppo più forte di lui, fortissimo nel suo genere. Mancherà al calcio, mancherà senz'altro a quel mondo e ai suoi innumerevoli assistiti, oggi nei panni degli orfani inconsolabili. Dove andranno a parare? Il portoghese Jorge Mendes risponderà ad eventuali chiamate quando Mino Raiola intraprenderà l'ultimo viaggio. Ma questa è un'altra storia. Anche per lui, un grande, doveva esserci un affare perdente. E quando si presenta, non è possibile per nessuno raddrizzarlo. Neppure se ti chiami Mino Raiola.