di Franco Manzitti

Mancano pochi giorni e a quasi quattro anni dalla tragedia del 14 agosto 2018 comincerà il processo per la strage del Ponte Morandi, crollato improvvisamente durante un nubifragio alle 11,36 di quella mattina, inghiottendo 43 viaggiatori dell’Autostrada A 10 e segnando il destino di Genova, spezzata in un colpo solo.

E’ un processo che chiama alla sbarra_ come si diceva una volta _ 59 imputati, accusati di reati pesantissimi, dall’omicidio colposo plurimo, all’attentato alla sicurezza dei trasporti, alla strage, alle omissioni di controllo e schiera da Giovanni Castellucci, l’imputato principe, ex amministratore di Aspi, a molti dirigenti e funzionari di società concessionarie, del Ministero dei Trasporti, dei singoli tronchi autostradali.

E’ un processo che la città affronta tanto tempo dopo, all’uscita da una campagna elettorale comunale, giocata anche sulla ricostruzione del Ponte San Giorgio, che ha sostituito, in appena 18 mesi dal crollo, il Morandi, con meriti riconosciuti, ma anche discussi al sindaco Marco Bucci, super commissario della ricostruzione. Il dolore della sciagura è vivo, sopratutto nel Comitato di parenti delle vittime, dove Egle Possetti, la leader, è diventata una coscienza critica permanente, battagliera e polemica. Quello che chiedono i più colpiti da quella tragedia è che il processo sia  visibile, fortemente rappresentato, che non si disperda, tanto tempo dopo, nella genericità degli imputati, nella confusione di tante altre drammatiche notizie, in uscita dalla pandemia, in piena guerra, nella elezione del nuovo sindaco e del nuovo consiglio comunale.

Ma qua esiste già un problema, a partire dal 7 luglio, data di inizio del processo, perché il numero degli imputati, degli avvocati, delle parti civili è tale che è difficile trovare a Genova un’aula sufficientemente grande e attrezzata per accogliere tutti e garantire l’agibilità delle udienze.

 Nel palazzo di Giustizia genovese esiste una tecnostruttura, costruita apposta per ospitare l’udienza preliminare nell’inverno e nella primavera appena trascorsi. 

Ma quell’ambiente non basta. Stanno studiando di organizzare le udienze al Palasport della Fiumara, una costruzione nel Ponente genovese Ma con l’incertezza di impegnare per chissà quanto tempo una struttura  dedicata ad altro. 

L’altra soluzione è di una aula “doppia”, la tecno struttura suddetta e l’aula magna del palazzo di Giustizia, quella dove si sono tenuti i processo per il G8 genovese , per i fatti del 2001. 

La logistica è comunque solo uno degli ultimi problemi del processo forse più complicato e impegnativo della recente storia giudiziaria italiana. 

Bisogna tornare ai processi di mafia o di terrorismo degli anni Ottanta-Novanta per trovare una tale complessità di protagonisti. In questo caso ci sono in più tutti gli aspetti tecnici, le perizie infinite sullo stato del ponte, dell’accusa, della difesa, della parte civile. 

Per quasi quattro anni il “relitto” del ponte, sbriciolato per una lunghezza di 250 metri, è stato vivisezionato da decine di esperti per arrivare a una conclusione sulle cause del crollo. 

E poi ci sono montagne di intercettazioni che partono ben prima del crollo e contengono dichiarazioni scottanti di imputati e testimoni, di chi faceva le manutenzioni o non le faceva, di chi doveva controllare e non lo ha fatto. Perfino di chi ha scherzato con battute sui controlli “finti”.

Si prevedono diversi mesi di udienze e una sentenza che potrebbe arriverà sicuramente nel 2023. E sarà, comunque, la sentenza di primo grado nella quale si incomincerà a capire se si è fatta giustizia non solo per le 43 vittime, per i 14 feriti con danni irreversibili, ma più in generale per Genova spezzata in due, per l’Italia che scoprì lo stato di manutenzione vergognosa e pericolosa della manutenzione delle sue autostrade e come erano i rapporti tra lo Stato e i privati concessionari. In questo caso gli azionisti di Spim e Aspi, dove troneggiava la grande famiglia dei Benetton.

C’è però un altro processo che non è mai stato celebrato e che non lo sarò mai, che Genova ha in parte rimosso perché riguarda la sua  classe dirigente delle ultime generazioni, almeno da quando nel 1967 il ponte nuovo, il “ponte di Brooklyn”, come lo chiamavano gli abitanti della Valpolcevera, colmi di orgoglio per quella grande costruzione che significava sviluppo, futuro, scommessa di un domani grande, venne inaugurato.

Il secondo e impossibile processo pesa su quegli anni, tra il 1967 e il 2018 del crollo, durante i quali, a parte la responsabilità delle manutenzioni, il Morandi si è logorato progressivamente per un utilizzo che è cresciuto, mentre si modificava intorno tutta la rete infrastrutturale della quale il nuovo Morandi era inizialmente un fiore all’occhiello. 

Il Morandi non poteva durare quei 51 anni, perché il trasporto intorno è cambiato radicalmente. Era stato costruito per scavalcare la Valpolcevera, collegare le autostrade Genova-Milano,  Genova -Savona, Genova- La Spezia. 

Era nato quando il porto di Genova aveva il solo grande scalo storico del centro città e non c’erano ancora i container come mezzo di trasporto marittimo. Quando il traffico complessivo aveva un peso specifico e un volume ben diversi da quanto sarebbe avvenuto nei decenni successivi. 

Dopo nacquero non solo un’altra autostrada, la Voltri-Gravellona Toce, che sboccava sul Morandi, ma anche il porto di Voltri, grande hub destinato a diventare un polo chiave del trasporto marittimo, insieme al porto di Vado Ligure, collegato alla stessa A10 . Inoltre  il traffico turistico, quello soprattutto avviato verso il porto di Genova da dove partono i traghetti per le isole e le navi da crociera, è aumentato anch’esso esponenzialmente nel corso dei decenni, formando, soprattutto nel periodo estivo, grandi code sulla direttrice verso Genova dalla grandi città del Nord.

Così quel ponte avveniristico, fantastico, sul quale il suo grande architetto Giorgio Morandi aveva lanciato allarmi per sollecitarne il controllo, la verifica per una tecnica di costruzione assolutamente inedita (il cemento precompresso con un’anima di ferro), ha incominciato a logorarsi sempre di più. 

Già nel 1989, esattamente 22 anni dopo la costruzione, i primi allarmi erano stati lanciati dall’Anas e i cantieri incominciavano ad abitare sul ponte quasi ininterrottamente. 

Cosa ha fatto nel corso degli anni la classe politica amministrativa che reggeva la città di Genova, la provincia, la Regione, il porto? Ha incominciato a porsi il problema, a studiare soluzioni, una su tutti la famosa Bretella, un collegamento autostradale che scaricasse parte del traffico dal ponte e lo deviasse su questa nuova arteria, già finanziata con 700 miliardi dell’epoca. 

Ma i lavori non sono mai cominciati per la opposizione, sopratutto del PCI di allora che temeva di subire danni elettorali dal territorio “toccato” da quella bretella. Quindi soldi dirottati sulla leggendaria Reggio Calabria -Salerno e nessuno scarico per il Morandi.

Una soluzione alternativa o suppletiva ha poi preso il nome di “Gronda” della quale tutt’ora si parla, ma lì è cominciato solo un grande dibattito pubblico,  lanciato dalla sindaco Marta Vincenzi, che ha fatto discutere la città quartiere per quartiere, ma passavano gli anni e non succedeva nulla.

 O almeno qualcosa avveniva in termine di deterioramento del Morandi, sempre più assistito da cantieri continui, fino all’intervento drastico su uno degli stralli. 

Uno dei sindaci più forti di Genova di questo periodo, Beppe Pericu, aveva addirittura studiato l’ipotesi di costruire un secondo Morandi, di fianco o sopra quello originale. E all’uopo era stato convocato a Genova una archistar come Sebastian Calatrava, che aveva disegnato il suo progetto, affascinante e spettacolare.

In questo modo si è arrivati alla data fatidica dell’agosto 2018. Nei mesi precedenti al grande crollo spesso di notte il ponte “chiudeva” e il traffico veniva deviato sulla strada statale. I cantieri là sopra dovevano urgentemente mettere della pezze.

Ma oramai era troppo tardi. 

Fra qualche mese sapremo chi pagherà penalmente quella immane tragedia, rispondendo del suo ruolo “tecnico”. Il processo alla classe dirigente politica e amministrativa, che non è intervenuta in tempo, non si farà mai. Amen.