di Pietro Salvatori

Fino a ieri nella storia dei 5 stelle era una parola assolutamente tabù, da oggi viene brandita, evocata, cullata, soppesata. La scissione nel Movimento non sembra più tanto una questione del se, ma piuttosto del come e del quando. Dopo mesi di convivenza da estranei nella stessa casa, dopo il braccio di ferro nei giorni del Quirinale che brucia ancora nella mente di Giuseppe Conte, Luigi Di Maio ha deciso di dare fuoco alle polveri.

Per farlo ha deciso di convocare i giornalisti all’ingresso posteriore della Camera a piazza del Parlamento, lo stesso identico luogo dove aveva dato la sua versione in polemica con il capo politico su quello che era successo nei giorni del Colle. Il suo è un attacco clamoroso alla leadership del suo partito: “Non siamo mai andati così male alle amministrative, non si può dare sempre la colpa agli altri, bisogna assumersi delle responsabilità”. Chiede che il Movimento faccia “uno sforzo di democrazia interna, più inclusività, più dibattito”. E lancia messaggi di fuoco anche sulla deriva di Conte sulla politica internazionale: “Non credo siano opportune decisioni che disallineano l’Italia dalla Nato e dall’Ue. Non possiamo stare nel governo e poi un giorno sì e un giorno no per imitare Salvini attaccarlo”.

È la resa dei conti. Parole che se non suonano come un ultimatum, poco ci manca. Il ministro degli Esteri spiega ai giornalisti che lo circondano che “lo dico a voi perché non abbiamo un posto dove dirlo”, una formula che nella storia politica non è nuova, e che spesso ha costituito l’anticamera di una scissione. Tra i suoi non ci si nasconde dietro un dito. Uno dei parlamentari del giro stretto di Di Maio allarga le braccia: “Chi può dirlo, non escludo nulla”. Un suo collega rilancia: “Non vogliamo morire contiani, ormai le nomine le fa lui, la linea la dà lui, noi sono sei mesi che non veniamo coinvolti in nulla”. Parte in batteria una lunga serie di parlamentari a sostegno di Di Maio: da Laura Castelli a Francesco D’Uva, da Sergio Battelli a Cosimo Adelizzi, da Gianluca Vacca a Manlio Di Stefano. C’è chi è più pompiere e chi più incendiario, ma la sostanza non cambia: non si può andare avanti così.

A pesare un rapporto sfibrato da tempo e che si è totalmente logorato nei giorni della rielezione di Sergio Mattarella. Pesa una linea politica che Di Maio non ha mai condiviso, un’indirizzo eterodosso nella linea sulla politica internazionale mai valutato insieme al titolare della Farnesina, le critiche alle armi fatte nella consapevolezza che il ministro degli Esteri controfirma tutti i decreti. Ma è anche, banalmente, uno scontro di potere. Tra i vicepresidenti, i coordinatori dei Comitati tematici, i coordinatori regionali, Conte ha costruito un partito a sua immagine e somiglianza. Tutto è nominato, nulla è contendibile, la rete di rapporti e il pur fragile tessuto territoriale (i Facilitatori, remember?) costruito dall’ex leader è stato spazzato via. La decisione di mettere ai voti il secondo mandato, i modi e le alternative con cui farlo, impatteranno come un uragano sul gruppo, ma la decisione ha scavalcato Di Maio.

Conte viene preso in contropiede. È atteso in giornata a Bologna, ritarda la partenza per rispondere. I suoi si chiudono in conclave, calibrano i toni. Che sono durissimi. “Ho fatto campagna elettorale, so come assumermi la responsabilità quando si ha leadership politica” attacca il capo politico alludendo al mancato impegno sui territori del rivale. "Quando è stato leader Di Maio - continua a picchiare il presidente M5s - ho letto lo Statuto, c'era un solo organo politico: il capo politico. Che faccia lezioni adesso di democrazia interna a questa comunità, fa sorridere, che ci paragoni a Salvini è un'offesa per tutta la comunità”. Dice che è “una sciocchezza” definire il Movimento antiatlantista, ma non vuole aggiungere altro, per rispetto di Mario Draghi a Kiev, perché quando il premier è in missione, non si fanno polemiche di politica estera, Di Maio rischia di indebolire il governo”. E peccato che quando il presidente del Consiglio era a Washington lo stesso Conte dall’Italia ne reclamava la presenza in aula per cambiare l’indirizzo di politica estera del paese.

Il tema è sensibile, e anche per questo Di Maio ha calibrato per oggi la sua uscita: “Chiedo che nella risoluzione che voteremo non ci siano contenuti che ci disallineano dagli alleati, l’Italia non è un paese neutrale”. Il riferimento è al prossimo 21 giugno, quando Draghi sarà in aula prima del Consiglio europeo e i 5 stelle vorrebbero inserire lo stop alle armi nella risoluzione che verrà votata. Di Maio non ci sta e non ci stanno nemmeno i suoi. Dice il senatore Primo Di Nicola che “se qualcuno vuole portarci fuori dall’Europa e dall’Alleanza atlantica sono personalmente pronto a una conta interna”. Lo showdown potrebbe arrivare prima del previsto.

La contromossa di Conte è quella di convocare un’assemblea congiunta per mercoledì prossimo, un appuntamento che si preannuncia rovente e che sarà una resa dei conti. Il capo politico vuole mettere a nudo le contraddizioni di Di Maio, il suo lavorare ai fianchi contro la sua leadership, e dunque contro il Movimento. Tra i suoi c’è chi spinge per tenere accesa la diretta streaming, non solo un omaggio ai bei vecchi tempi, ma per celebrare una sorta di processo politico in diretta.

Conte non si sbilancia, sa che il momento è delicatissimo. La decisione di mettere in discussione la regola del limite dei due mandati è una bomba ad orologeria piazzata nelle fondamenta del suo partito, e rischia di scombinare le carte sin da ora.

Secondo il pallottoliere interno la truppa dei fedelissimi dimaiani tra Camera e Senato si attesta intorno alle trenta unità, un numero che potrebbe tuttavia essere rimpolpato da chi è certo di non essere rieletto e da chi è stato messo ai margini dall’attuale leadership e cova personalissime ragioni di scontento e rivalsa. “Preventivabili fibrillazioni” dopo aver messo in discussione la regola del doppio mandato, dice Conte. Che è consapevole che potrebbe vedersi sfuggire il partito di mano sul voto del 21 giugno. Ecco perché oggi, in una riunione convocata ad hoc, la capogruppo al Senato Mariolina Castellone ha spiegato che la richiesta del M5s è quella di mettere nero su bianco che su un prossimo invio di armi sarà chiamato a esprimersi il Parlamento. Una formulazione indigeribile per il governo, ma che già smussa la posizione del generale stop all’invio in Ucraina che era nelle iniziali intenzioni. Beppe Grillo tace. Chi gli ha parlato negli scorsi giorni lo racconta contrarissimo alla modifica della regola dei due mandati, ma spiega anche che sulla linea politica è assai più vicino a Conte che a Di Maio. Il fondatore al momento tace, la sua creatura non è mai stata così vicina all’andare in pezzi. “Ce lo deve dire Di Maio se vuole fare un partito”, dice Conte, mentre i dimaiani si interrogano su una sola cosa: la scissione.