Una vera pizza (depositphotos)

di Silvia Renda

“Se c’è un piatto universale, quello non è l’hamburger bensì la pizza, perché si limita a una base comune – l’impasto – sul quale ciascuno può disporre, organizzare ed esprimere la sua differenza”. Lo disse l’economista francese Jacques Attali ed è uno degli aforismi maggiormente apprezzati sul tema, perché riesce meglio a cogliere l’essenza di un piatto che si lega all’identità del nostro territorio e più di ogni altro ne ha valicato i confini. La pizza, si intende, ti accetta così come sei. Ingredienti ogni volta diversi per gli indecisi, i più bizzarri per gli estrosi, quelli più rassicuranti per chi ama la semplicità. Puoi occupare una tavola ospitando i più diversi palati e sai che tutti verranno alla fine accontentati, specie quando ci sarà da mettere mano al portafoglio. Ma com’è possibile allora che questa pietanza nazional popolare sia diventata così divisiva? Da giorni imprenditori e ristoratori dibattono sul tema, prendendosi – chiediamo scusa per il gioco di parole, promettiamo che sarà l’unico cedimento – a pizze in faccia.

Per chi si fosse perso le puntate precedenti, le riassumiamo nel tempo di un paragrafo, anche se in meno di una settimana sono state riempite paginate di giornale sul tema. È cominciata con una polemica sui prezzi troppo alti della catena Crazy Pizza di Flavio Briatore, dove alcune opzioni presenti sul menù arrivano a costare fino a 65 euro. Troppo caro? No, a parere dell’imprenditore, che ha rilanciato l’accusa avanzando l’ipotesi che le pizze vendute a 5 euro potessero avere ingredienti di scarsa qualità. Sul tema, pungolata nell’orgoglio, si è risvegliata Napoli, culla dei più famosi pizzaioli, che della pizza ha fatto un simbolo della città, tale da essere riconosciuta dall'Unesco come un capolavoro culinario, inserito nel 2017 nella lista dei Patrimoni Mondiali dell'Umanità. Tanti, a vario titolo, hanno attaccato Briatore il Blasfemo, reo, con i suoi prezzi altisonanti, di avere offeso l’anima della pizza, che per sua indole appartiene a tutti. La pizza del popolo è stata offerta al popolo da Gino Sorbillo, per far stabilire a chi assaggiava se davvero fossero stati utilizzati pomodori e mozzarelle indegni.

In questi giorni già caldissimi di inizio estate, dove i temi più dibattuti nei telegiornali continuano a essere tutt’altro che leggeri, una stuzzicante polemica da poco si è ingigantita all’infinito, sotto la sapiente regia di imprenditori che hanno saputo così portare pubblicità al proprio mulino. Ma a farne le spese è stata la pizza, fatta a brandelli, lacerata nel suo impasto – meglio lievitato, anzi no - quando da sempre il suo compito è stato quello di unire. Persino quando gli è stata posta sopra dell’ananas. Tutti uniti, nella critica.

Ci siamo abituati a vederla così, come un piatto semplice al quale parliamo con confidenza, per il quale non è necessario acchittarsi troppo per uscirci a cena. Che ci seduce col suo odore mentre passeggiamo per strada, concedendoci a incontri non programmati, fugaci e appaganti. La pizza accoglie, senza chiedere troppo in cambio. Alle volte basta quell’euro che naviga sciolto nella tasca dei pantaloni, e la magia si ripete, senza stancarci mai, senza averne mai abbastanza.

Non si può chiedere un ricordo legato alla pizza, perché tutti ne hanno a centinaia. La pizzetta comprata all’intervallo, quella cucinata dalla nonna il sabato sera, quella consumata sulla spiaggia al falò. Per questo c’è chi poi fa fatica a immaginare che un piatto a cui abbiamo dato da subito del tu, ora si vesta di abiti così regali. Di sughi preparati solo con unghie fresche di manicure, con pomodori raccolti in campi arati con piccoli rastrelli d’avorio. Con mozzarelle ricavate solo dal latte di mucche simpatiche dal nobile lignaggio.

Ma se stupiscono i 65 euro di Briatore, è bene sapere che non è stato lui a osare di più. La pizza Luigi XIII del maestro di Agropoli Renato Viola costa 12mila dollari: condita di caviale di tre varietà diverse, mozzarella di bufala campana bio Dop, gamberoni rossi di Acciaroli, aragoste di Palinuro, cicale del Mediterraneo e sale rosa australiano Murray River. 6800 dollari per la pizza della casa del Favitta's Family, a New York, guarnita di diamanti non commestibili e accompagnata da un Dom Perignon. Con 4200 dollari da Haggis, a Glasgow, è possibile acquistare la pizza Royal: caviale, salmone affumicato marinato nel cognac, aragomasta marinata, prosciutto e aceto balsamico vintage.

Troppo? Esagerato? Senza senso? D'altronde, sulla pizza ciascuno può disporre, organizzare ed esprimere la sua differenza.