di Mattia Feltri

 

In Italia, dice il periodico rilevamento Istat, gli over 65 sono quasi il doppio degli under 15 e fra una trentina d’anni saranno il triplo, ma non servivano le statistiche per fare il ritratto d’un paese vecchio, che affacciato sul mondo sa soltanto dire apocalisse e punto di non ritorno (ne ha scritto benissimo qui Massimo Adinolfi).

Poche sere fa ho rivisto Mediterraneo, il bel film di Gabriele Salvatores del 1991 e ambientato nel 1941. Otto soldati italiani sbarcano su un’isola greca dove rimangono tagliati fuori dalla guerra, e lì costruiscono il loro piccolo pianeta di pace, tutto italiano, fanno l’amore, dipingono, giocano a calcio, leggono la poesia degli antichi greci, fumano hashish, finché non vengono rintracciati subito dopo l’8 settembre: bisogna tornare, bisogna ricostruire il paese, ripartire da capo, edificare un mondo migliore. Molti anni più tardi, alcuni di loro si ritroveranno sulla stessa isola, incanutiti, delusi e disillusi: l’unico modo di affrontare il mondo è rifuggirlo e cercare un angolo di sopravvivenza. Mi è sembrata la biografia dei trent’anni successivi, ma in fondo non c’è niente di sbagliato: si diventa vecchi quando i rimpianti e le recriminazioni prevalgono sui progetti, e cioè quando il futuro non è più terra di conquista ma ansia di sicurezza. È nelle cose della vita. È il momento in cui, gradualmente, si cede il passo alla vitalità dei giovani, al loro fermento, al loro sguardo nuovo, disincantato e pure spericolato.

In questo modo le società si mantengono vive e vitali, ma se di giovani ce ne sono sempre meno e vengono travolti dalla cupezza della vecchiaia prevalente, dallo spavento, dal senso millenaristico del collasso, le società sfioriscono e si inchiodano. Nulla di quanto successo nell’ultimo trentennio – la rivoluzione digitale, l’apertura delle frontiere, la globalizzazione, la conseguente esplosione demografica ed economica dei paesi poveri, le migrazioni di chi è rimasto indietro – fosse un’opportunità o un problema, è stato affrontato senza inclinazioni funebri.  Lo vedo bene io da qui, dove la digitalizzazione ha sbriciolato il trionfale giornalismo novecentesco, cartaceo e opulento, e per decenni si è rimasti a guardare afflitti il castello in fiamme senza pensare a una via d’uscita. Soprattutto senza capire che un tempo era irrimediabilmente finito e un altro si apriva, toccava cambiare strada, non restare sulla vecchia a rimpiangere i fasti perduti.

Ancora oggi non se ne esce. I territori politici sono percorsi da partiti di destra impegnati a restaurare un consorzio umano irrealistico, fatto di sovranità, confini, purezza etnica (tanto più bislacca in Italia, prodotto plurisecolare di decine di rimescolamenti di sangue), e da partiti di sinistra imbullonati alle dottrine dei padri, il welfare, l’assistenzialismo, la distribuzione di denaro, buone soluzioni quando noi eravamo l’angolo ricco del pianeta, giovane e ricco, e il denaro lo si produceva anziché ottenerlo a prestito, a rigonfiare all’infinito il debito pubblico, bella eredità per i quattro bambini che ancora diamo alla luce. Ma se questa è l’offerta politica è perché questa è la domanda, e la domanda è: sicurezza. Sicurezza economica, sicurezza sociale, sicurezza di diritti, intanto che l’epicentro della storia si è spostato nell’altro oceano, il Pacifico, fra la Cina esuberante e gli Stati Uniti comunque ancora capaci di edificare la Silicon Valley, che a noi fa tanto orrore, benché ce ne cibiamo, ed è il tempio del presente (stavo scrivendo del futuro…).

Un altro numero proposto dall’Istat spiega meglio dove siamo diretti: 280 mila figli dell’immigrazione, bambini africani, asiatici, dell’Europa centrale e orientale, sarebbero oggi i destinatari della cittadinanza italiana se fosse stato approvato lo ius scholae. Sarebbe un bene: centinaia di migliaia di ragazzi affamati di avvenire, straboccanti vigore, ci sono oggi indispensabili davanti al crepuscolo. Non volerli in nome di una primazia di sangue è non soltanto ricolo, ma intrinsecamente e inconsapevolmente razzista. Quando vedo Matteo Salvini postare immagini di giovani immigrati dediti a pestaggi o demolizioni, trasformando episodi nella regola, mi domando che cosa voglia dire: fanno così perché sanno fare così e basta, e quindi la questione è razziale, o fanno così perché la questione è sociale? E se è sociale, non ci impone di metterci mano, di fare in modo che questi ragazzi si sentano bene accolti da noi, partecipi di una comunità, sradicati ma nuovamente radicati? Oppure davvero crediamo che basti rimettere il filo spinato e rinchiuderci nella nostra isoletta greca dell’anima?

La pandemia, la guerra e il cambiamento climatico sono stati la botta finale: sono guai seri che meriterebbero energia e visione, e invece ce li lasciamo piombare addosso. Apocalisse. Punto di non ritorno. Sgomento. Disarmo. Ma io sono ottimista. Magari ci vorranno cento o duecento anni, e purtroppo non vedrò l’Italia che verrà. Ma l’Italia, che si chiama così da centosessant’anni, e viene da millenni di fermento, tornerà a essere un fermento, è inevitabile: avrà la pelle diversa, culture diverse, religioni diverse, lingue imbastardite, gastronomie ibride, come sempre è stato, e sarà viva perché chi ha paura del futuro lascia sempre il passo a chi ne è bramoso.