di Anonimo Napoletano

I giovani italiani vanno via di casa un po' prima rispetto a quanto eravamo abituati. L'età media in cui si lasciano i genitori è scesa infatti a 29,9 anni. Un poco appena sotto la soglia dei 30 anni, un traguardo che non si registrava dal 2014. È quando emerge da un'analisi dell'Eurostat che fotografa le abitudini dei giovani di tutta Europa. Italiani, quindi, un po' meno “bamboccioni”, ma che restano comunque molto indietro rispetto alla media europea, che è di 26,5 anni di età per mettere su casa da soli (prima del Covid era di 26,2). E che soprattutto è lontanissima dall'età media dei giovani dei paesi nordici, in primis Svezia e Finlandia, dove i giovani lasciano la casa dei genitori, rispettivamente, a 19 e 21 anni. 

C'è però anche chi fa peggio dei nostri giovani, in Europa: fanalini di coda della classifica, dopo l’Italia, ci sono infatti i ragazzi di Grecia, Bulgaria, Slovacchia, Portogallo e Croazia. 

È innegabile che l'arrivo del Covid ha peggiorato una situazione già di per se stagnante, e che sulla decisione di lasciare casa pesino i fattori economici, disoccupazione, precariato, povertà non aiutano a fare la scelta di rendersi autonomi dalla famiglia di origine. Le ultime statistiche di dicono che le politiche giovanili messe in campo negli ultimi 50 anni dai vari Governi che si sono succeduti non hanno prodotto risultati significativi. 

Infatti, nel 1983 la quota dei 18-34enni celibi o nubili che viveva in famiglia era del 49%, nel 2000 era arrivata al 60,2%, attestandosi al 58,6% del 2009. Dall'ultimo Rapporto Istat, però, emerge che i giovani che vivono in casa con i genitori sono ora 7 milioni, pari al 67,6% del totale. In 50 anni siamo passati dalla metà ai due terzi dei giovani che non riescono ancora ad essere indipendenti. La pandemia, poi, ha avuto conseguenze sulla fasce deboli: a perdere il lavoro a causa delle chiusure e della crisi sono stati soprattutto giovani, donne e stranieri, i più precari e dunque i più licenziabili. Poi ci sono gli oltre due milioni di Neet, giovani che non lavorano e non studiano, un record tutto italiano, ai quali nei due anni nella pandemia si sono aggiunti studenti esclusi dalla didattica a distanza. La mancanza di lavoro e il lavoro poco retribuito rendono i giovani più poveri delle altre fasce di età: la povertà assoluta è passata dalla percentuale del 3 a quella dell'11% dei 18-34enni, e dal 4 al 14% per i minorenni. Dati che spiegano il fenomeno del presunto “bamboccionismo”. La stessa Eurostat fa una correlazione tra tasso di occupazione giovanile, scoprendo, ovviamente, che nella maggior parte dei Paesi in cui i giovani vanno via da casa intorno o dopo i 29 anni il tasso di partecipazione al mercato del lavoro non supera il 50%. Mentre la Svezia, dove si va via di casa a 19 anni, sfiora il tasso del 70% di occupazione giovanile, e sono oltre il 60% anche Finlandia e Danimarca, Paesi in cui i giovani vanno a vivere da soli poco più che ventunenni. Non è quindi un caso se un fondo alla classifica europea, insieme all'Italia, ci siano tutti paesi con alti tassi di disoccupazione e precariato tra i giovani.

Non c'è infatti solo la mancanza di lavoro ma anche il basso livello di retribuzione. Gli stipendi per i giovani italiani sono tra i più bassi d’Europa. I lavoratori tra i 18 e i 24 anni nel nostro Paese guadagnano in media 15.858 euro l’anno secondo i dati Eurostat, mentre i loro coetanei guadagnano in media quasi 24mila euro l’anno in Germania e nei Paesi Bassi, oltre 19mila in Francia, e 25mila in Belgio (Paesi che hanno un costo della vita simile al nostro). La media europea è pari a 16.825 euro. Sempre secondo Eurostat, nel 2021 in Italia la disoccupazione giovanile ha toccato il 23,3%, mentre in Germania è al 10,1% e in Francia al 9,9%.

Altro fattore importante, come detto, è il precariato: secondo il rapporto annuale dell’Istat, pubblicato lo scorso 8 luglio, un ragazzo su tre e quattro ragazze su dieci, sul totale dei giovani occupati tra i 15 e i 34 anni, nel 2021 sono dipendenti a tempo determinato. 

Il terzo dato è ancora più eloquente: l’Italia nel 2021 è il primo tra i Paesi Ue per i “Neet” (Not in Education, Employment or Training), cioè la quota di popolazione di età compresa tra i 15 e i 29 anni che non è né occupata né inserita in un percorso di istruzione o di formazione: sono il 25,1%, mentre la media dei Paesi Ue è pari a 13,7%. Un dato che sarebbe estremamente errato collegare alla narrazione che dipinge i giovani italiani come “svogliati” o “bamboccioni”. È evidente infatti che a essere penalizzati sono soprattutto i cittadini del Sud, le donne e chi proviene da una famiglia economicamente svantaggiata. Non si tratta dunque di pigrizia, ma di disuguaglianze geografiche, sociali e di genere. Quando non girano soldi, difficile pensare di mettere su casa da soli.