Sappiamo che non c'è un pianeta B. Cioè che non abbiamo scelta: non possiamo permetterci che uragani e siccità rendano inabitabile la Terra perché non sapremmo dove andare. Traslocare 8 miliardi di esseri umani è impossibile. Ma su scala più limitata si può? Tuvalu cerca una Tuvalu B. Questo arcipelago a fior d'acqua nel mezzo del Pacifico è destinato a essere spazzato via dalla crescita dell'oceano e si guarda intorno alla ricerca di una soluzione.

Già nel 2009, alla conferenza sul clima di Copenaghen, i delegati di questo minuscolo Stato avevano fatto un disperato appello alle Nazioni Unite per frenare le emissioni serra che rendono sempre più veloce la risalita del mare. All'epoca c'era grande preoccupazione perché la concentrazione di CO2 in atmosfera era di 387 parti per milione. Oggi – dopo 11 conferenze Onu sul clima– la CO2 è a quota 418, il 50% in più rispetto all'epoca preindustriale.

Con le mareggiate che si mangiano la costa, gli abitanti di Tuvalu non hanno più tempo: cercano casa chiedendo ospitalità temporanea a vicini come l'Australia. Ma il trasloco pone vari problemi. Quali diritti si possono mettere in valigia? Tuvalu continuerà a esistere come Stato quando verrà sommerso? Manterrà un seggio all'Onu come Paese sottomarino? O si affiderà a un backup di ricordi nel metaverso?

E, dal punto di vista pratico, chi pagherà il trasloco? Chi risarcirà la perdita delle case, dei campi, di un intero Paese che ospita 12mila persone? Del resto questo è un problema che riguarda tutti gli sfollati della crisi climatica, ed è particolarmente sentito nei Paesi più poveri e più sfortunati, quelli che hanno una responsabilità minima per il disastro climatico e pagano la parte più salata del conto.

Su queste fronte nelle ultime settimane sono arrivati due segnali importanti. Il Comitato Onu per i diritti umani ha espresso un parere secco sull'operato del governo australiano in carica nel 2019, quello del leader conservatore e negazionista climatico Scott Morrison. Per le Nazioni Unite l'esecutivo di Morrison non ha protetto i nativi delle isole dello Stretto di Torres dalle conseguenze della crisi climatica. Otto abitanti di quelle isole avevano denunciato di essere stati lasciati privi di aiuto in una situazione insostenibile, con le mareggiate che distruggevano anche i cimiteri. Per l'Onu hanno ragione.

Il secondo segnale è venuto dalla Danimarca: è stato il primo paese Onu a versare 13 milioni di dollari per risarcire i danni causati dal riscaldamento globale nei Paesi più poveri. Finora avevano stanziato fondi a questo scopo solo la Scozia e la regione belga della Vallonia, che non fanno formalmente parte delle Nazioni Unite. I finanziamenti danesi saranno suddivisi tra: un'organizzazione che finanzia assicurazioni nei paesi più poveri; partenariati strategici attivi in questo settore; ong impegnate ad aumentare la resilienza alla crisi climatica.

È un primo passo in direzione della soluzione del contenzioso sui "loss and damage" che rappresenta uno dei capitoli più controversi del trentennale negoziato internazionale in materia. E uno degli scogli per la prossima conferenza Onu sul clima, la Cop27 di novembre.