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di Michele Fioroni

Il mercato del lavoro nel nostro Paese continua a essere "afflitto" da problematiche che si trascinano da troppo tempo e impattano, in maniera sempre più significativa, sul sistema socio economico. Negli ultimi anni abbiamo assistito a una compulsione schizofrenica di riforma del mercato del lavoro con  interventi troppo bruschi e veloci, prontamente rinnegati dal governo successivo e privi di un'adeguata visione sistemica. Le politiche attive del lavoro non possono essere infatti disgiunte da quelle di politica industriale, dell'innovazione e dalla programmazione delle competenze.

Intervenire per migliorare il mercato del lavoro e l'occupazione non può prescindere da una visione di insieme sul sistema produttivo, economico e sociale, e impone la pianificazione di interventi con una strategia di governo fortemente integrata. Anche in questo caso, come già evidenziato per le politiche dell'innovazione, la frammentazione di competenze tra diversi ministeri, in primis quello dell'istruzione, non ha aiutato la costruzione di una visione sistemica. I tavoli di crisi ne sono oggi una plastica rappresentazione, frammentando le vertenze tra Mise e Lavoro come se non fossero due facce della stessa medaglia.

Se a ciò aggiungiamo una visione tipicamente post sessantottina ben radicata in molti ambienti di sinistra e dei sindacati che in, una distorta visione di eguaglianza, considerava l'accesso al sistema d'istruzione liceale e universitario l'unico ascensore sociale, demonizzando di fatto la formazione professionale, riusciamo a comprendere i tanti ritardi del nostro paese.

Essere il secondo paese manifatturiero di Europa imporrebbe la pianificazione di un sistema di competenze capace di andare di pari passo con l'evoluzione del sistema economico e produttivo. In una reale visione di politica sociale gli interventi di politica attiva dovrebbero garantire pari opportunità e accesso al mercato del lavoro, condizioni di lavoro eque, protezione e inclusione sociale.

Una visione a una sola gamba del mercato del lavoro, per il quale non si è riusciti ad innalzare il livello qualitativo, rendendolo più inclusivo e capace di sostenere le transizioni occupazionali verso i settori che costituiscono la dorsale economica del paese, senza sostenere, adeguatamente, la produttività e competitività delle imprese.

Quello italiano è un tessuto economico variegato, che esprime fabbisogni di competenze profondamente differenziati da settore a settore. A tal fine non si può più prescindere dalla costruzione di una filiera della formazione professionale che deve rappresentare un cambio di paradigma innanzitutto culturale, a partire dalle famiglie e dall'azione di orientamento dei giovani verso modelli duali in cui si affianchi allo studio, l'esperienza lavorativa.

Un mercato del lavoro moderno e digitalizzato, capace di intervenire sulle persone con percorsi di accompagnamento e inserimento al lavoro sempre più personalizzati e parallelamente un sistema di formazione e riqualificazione professionale orientato a soddisfare i fabbisogni delle imprese.

Il tutto passa anche per un potenziamento non solo di facciata dei centri dell'impiego. Non basta aggiungere personale e dotazioni informatiche. Il sistema pubblico ha bisogno di nuove competenze e metodologie. Algoritmi di intelligenza artificiale orientati a favorire la domanda e l'offerta di lavoro, capacità di analisi e incrocio di banche dati, sono queste le nuove frontiere del mercato del lavoro, insieme a un sinergico rapporto di collaborazione con le agenzie private, superando le barriere ideologiche che ne hanno impedito negli anni lo sviluppo.

Una strategia digital first, come già adottata con successo da tanti altri paesi europeo, che valorizzi la multicanalità affiancando al contatto diretto per erogare servizi al lavoratore e alle imprese, quello digitale.

Tutte sfide che Gol non ha saputo raccogliere completamente, rappresentando l'ennesima occasione persa per modernizzare il mercato del lavoro, privilegiando quell'approccio così marcatamente burocratico e dal sapore vagamente ideologico, che vede nella presa in carico del lavoratore il punto di arrivo e soffermandosi solo marginalmente  sull'impatto che le politiche attive del lavoro dovrebbero avere  per lavoratori, imprese e territorio.

Quando si antepone il mezzo all'obiettivo, difficilmente si produce sviluppo.

Infine il tema degli ammortizzatori sociali. Un sistema pensato in una stagione economica e politica molto diversa. Un strumento che ha bisogno di essere orientato verso le attività di upskilling e reskilling anche in costanza di lavoro.

Gli ammortizzatori sociali devono diventare un nuovo strumento di sostegno delle imprese, favorendo il processo di aggiornamento continuo accompagnando, le più meritevoli, nelle grandi transizioni e nello sviluppo di prodotti e servizi sempre più competitivi, anche attraverso un processo di aggiornamento della proprio forza lavoro. Una rivoluzione culturale epocale che vede negli ammortizzatori sociali non più uno strumento usato  solo per affrontare i problemi economici trasformandosi spesso in un parcheggio per garantire pace sociale, ma sopratutto uno strumento capace di prevenire le crisi e intervenire sugli aspetti strutturali dello sviluppo e della crescita.

Insomma una visione integrata che vede le politiche del lavoro parte imprescindibile della politica economica e industriale del Paese in una condizione di raccordo tra innovazione e politiche formative per evitare quella stessa confusione ben rappresentata da un ministro del lavoro che in piazza protesta contro se stesso.