Berta Caceres, attivista honduregna assassinata nel 2016

Due omicidi al giorno, ogni giorno, per dieci anni. È questo il bilancio diffuso dalla Ong Global Witness che a partire dal 2012 stila annualmente un rapporto sugli attivisti ambientali assassinati in tutto il mondo mentre difendevano i propri territori. A partire dal momento in cui Global Witness ha iniziato a tracciare le morti degli attivisti fino ad oggi, la Ong ha identificato 1.773 vittime, 200 solo nel 2021.

Per comprendere come si è arrivati a questo punto Global Witness spiega che i dati non bastano a fare chiarezza sulla gravità della situazione: restrizioni alla libertà di stampa e la mancanza di osservatori indipendenti causano in molti Paesi una carenza di dati. Inoltre, per molte delle zone in cui si è verificato il maggior numero di omicidi, il moltiplicarsi di conflitti armati, dispute territoriali e violenze rende ancora più difficile il tracciamento e il monitoraggio delle aggressioni.

I dati riportati dalla Ong riescono comunque a fornire un quadro ben preciso sulle vittime e su quali sono i Paesi in cui chi lotta per difendere la propria terra è a maggior rischio di essere ucciso. Oltre due terzi degli omicidi dell'ultimo decennio sono avvenuti in America latina con la maggior parte delle vittime in Brasile (342), Colombia (322) e Messico (154), mentre dall'altro lato del globo le Filippine hanno registrato 270 omicidi negli ultimi dieci anni.

Per Global Witness è chiara in questi Paesi la correlazione tra la violenza contro gli attivisti ambientali e la ricerca di uno sviluppo economico basato sull'estrazione di risorse naturali. Non a caso i gruppi più colpiti sono le comunità indigene che lottano per difendere i propri territori. Ne è un esempio il Brasile, dove l'85% degli omicidi si è compiuto negli stati amazzonici: un terzo delle vittime appartengono a comunità indigene o afro-discendenti che da decenni cercano di resistere all'avanzamento dello sfruttamento estensivo dei terreni e della deforestazione.

Nel 2021 Global Witness ha documentato 200 omicidi. Con 54 attivisti uccisi, il Messico è risultato il Paese con il più alto tasso di violenza nei confronti di chi difende la terra. Nel Paese che da oltre vent'anni è teatro di una guerra asimmetrica tra il governo messicano e i cartelli del narcotraffico, gli omicidi degli ambientalisti rischiano di passare in secondo piano, con gravi difficoltà di monitoraggio. Nonostante tutto ciò, i dati raccolti delineano uno scenario abbastanza chiaro e forniscono un identikit delle vittime. Circa due terzi degli omicidi si sono compiuti a Oaxaca e Sonora, due stati che oltre ad avere in comune grandi comunità indigene condividono importanti investimenti delle industrie minerarie.

Le comunità indigene non sono solamente prese di mira in Messico: in tutto il mondo, nel 2021, oltre il 40% delle vittime erano indigene sebbene queste popolazioni rappresentino solo il 5% della popolazione globale.
Un altro caso emblematico è quello della Repubblica Democratica del Congo. Qui Global Witness ha identificato otto omicidi, avvenuti tutti all'interno del Virunga National Park, dove i ranger a difesa del parco sono costantemente presi di mira dai bracconieri. Anche nel caso del continente africano verificare le cause degli omicidi è piuttosto arduo, i casi spesso non vengono riportati e gli omicidi non denunciati. Si teme dunque che il numero sia più alto.

Ma chi c'è dietro gli omicidi? Rispondere a questa semplice domanda purtroppo non è facile. Nel rapporto si ricorda che pochissimi responsabili vengono identificati e ancora meno portati davanti alla giustizia e puniti. Spesso è a causa della mancanza di indagini accurate ed efficaci. In Paesi in cui gli organi giudiziari sono deboli e le forze dell'ordine corrotte, la collusione con gli interessi che alimentano conflitti per lo sfruttamento del territorio crea situazioni di impunità per i crimini contro l'ambiente e chi lo difende.
Tra le tante storie raccontate nel report c'è quella di Isaac Tembé, un leader del popolo indigeno Tenetehara assassinato da un membro della polizia militare brasiliana con un colpo di pistola in petto. Questo caso è uno dei tanti che rivelano il nebuloso rapporto tra l'agribusiness espansivo e la violenza contro le popolazioni indigene. Una tendenza in forte aumento sotto il governo di Jair Bolsonaro.