di Michele Brambilla

Si è rivisto dopo un secolo (in politica pochi anni sono un'era geologica) Gianfranco Fini, ospite di Lucia Annunziata in tv, e da più parti lo si è descritto come padre nobile di Giorgia Meloni, con la quale, dopo tanti screzi, s'è riconciliato. Fini ha promosso la sua allieva, anche sull'antifascismo; poi le ha consigliato di non cedere sui diritti; infine ha pronosticato, al suo neonato governo, una lunga durata. "Travagliata", ha precisato: ma lunga.

Insomma un Fini che magari non è il consigliere della premier – egli stesso lo ha chiarito: no, non sono il suo consigliere – ma che in qualche modo ne sarebbe l'ispiratore. Colui che le ha preparato il terreno, una sorta di Giovanni Battista che apre la strada a qualcuno di più grande che deve arrivare dopo di lui. È così? Mi sbaglierò, ma penso assolutamente di no.

Dopo aver visto l'intervista a Fini, ho voluto ricercare (grazie YouTube) vecchi discorsi, vecchie tribune elettorali, vecchi comizi, vecchi interventi congressuali e vecchie interviste (ce n'è una straordinaria di Giovanni Minoli in una puntata di Mixer) con il vero, grande leader della destra postfascista italiana: Giorgio Almirante.

Credo si possa tutti riconoscere, senza timore di passare per di lui camerati, che Giorgio Almirante era un uomo straordinario per intelligenza, cultura, fascino, carisma. Concita De Gregorio ha scritto nei giorni scorsi, su Repubblica, di non condividere quasi nulla di ciò che ha detto Giorgia Meloni nel suo discorso di insediamento alla Camera, ma di riconoscerle una straordinaria leadership. Ecco, credo che lo stesso, e forse anche di più, possano dire coloro che videro e ascoltarono Almirante, e che della sua capacità di sedurre conservano memoria. Vengo al punto. Penso che il vero padre nobile di Giorgia Meloni, e di tutta Fratelli d'Italia, non sia Gianfranco Fini, ma Giorgio Almirante.

Sul fascismo Giorgia Meloni ha avuto e continua ad avere poche mezze parole e molte esitazioni. Ricordando le Fosse Ardeatine, ha parlato di barbarie nazifascista: ma non ha mai detto, come disse Fini, che il "fascismo è il male assoluto". A chi le chiede se è fascista, risponde di essere nata nel 1977, quando Mussolini era scomparso da trentadue anni: risposta senza dubbio sensata, ma non certo una presa di distanza. E così Ignazio La Russa, che dice di non voler festeggiare il 25 aprile. E così i giovani e i vecchi in camicia nera che il 28 ottobre hanno sfilato, indisturbati perché il clima è cambiato, per celebrare i cent'anni della Marcia su Roma.

Sto dicendo che Meloni e i suoi vogliono resuscitare il Ventennio? Assolutamente no. Sto dicendo però che il loro motto, pur se non esplicitato, non è quello della svolta di Fiuggi, ma quello di Giorgio Almirante: "Non rinnegare, non restaurare".

Fini, di Almirante, era il pupillo. Fu il vecchio capo a indicarlo al partito come suo successore. Anzi a imporlo: quando si dovette votare per il nuovo segretario del Fronte della Gioventù, vinse Marco Tarchi. Fini arrivò quinto. Ma Almirante aveva fatto modificare lo statuto, inserendo una clausola secondo la quale il segretario del Msi avrebbe scelto il segretario del Fronte fra i primi cinque più votati. E nominò Fini, il suo delfino. Avrebbe approvato, Almirante, le scelte e soprattutto le dichiarazioni del Fini degli anni seguenti? Non credo proprio, e infatti Donna Assunta parlò di tradimento.

Questo non vuol dire che Almirante avrebbe voluto tornare alla dittatura: negli ultimi anni della sua vita disse anzi, ed era sincero, di aver finito con l'apprezzare la democrazia. Ma mai avrebbe detto che il fascismo è il male assoluto. "Non rinnegare, non restaurare". Un giorno a Napoli, durante un comizio, la folla lo interruppe gridando Duce-Duce. Lui li stoppò immediatamente. Non è tempo di guardare al passato, disse, perché il nostro pensiero è vita, è azione, è libertà, è futuro. Ma non rinnegare: fino all'ultimo Almirante ha detto che per lui il fascismo è unità fra Stato, Nazione e lavoro.

Gianfranco Fini, fondando Alleanza Nazionale, ebbe un'idea giusta e intelligente: bisognava sbloccarsi, smarcarsi dal passato e pensare a una destra nuova. Ma a un certo punto, svolta dopo svolta, ai suoi è parso che di destra non restasse più nulla. Con Alleanza Nazionale la storia del Msi era cambiata; con la confluenza nel Pdl era finita.

A torto o a ragione, nella destra italiana Gianfranco Fini è passato per l'uomo del tradimento. Giorgia Meloni per la donna della rivincita. Finì spezzò in qualche modo la storia del postfascismo: e Giorgia Meloni l'ha in qualche modo ricongiunta. Nei tempi nuovi che oggi viviamo, certo: ma ricongiunta.

È lei che ha fatto risorgere il partito, quel partito che un Almirante commosso, al suo ultimo congresso, definì "tutta la mia vita". È lei che ha riportato sulle schede elettorali quella fiamma di spirito immortale che scaturisce dalla tomba di Mussolini e che era scomparsa con il Pdl. È lei che non ha timore nel candidare donne e uomini che portano il cognome del Duce. È lei che, quasi tornando all'epoca dell'arco costituzionale e della conventio ad excludendum, ha rifiutato la compagnia di quei partiti e di quegli intellettuali di sinistra, o comunque riconosciuti come perbene, da cui Fini a un certo punto sembrò quasi dipendere, in una sorta di sudditanza psicologica e di ossessiva ricerca di rispettabilità. È lei, Giorgia Meloni, che ha portato per la prima volta in un'agenda di governo la Repubblica presidenziale: che è una vecchia battaglia di Almirante, non di Fini.

Sbaglierò, ma se davvero qualcosa di noi umani sopravvive alla morte, in questo momento Giorgio Almirante sorride a Giorgia Meloni, pensando al suo motto con parole in ordine invertito: "Non restaurare e non rinnegare".