DI MATTEO FORCINITI

Una serata dedicata a far conoscere a fondo Primo Levi e la sua srtaordinaria opera. Giovedì sera il Circolo Trentino di Montevideo ha ospitato una conferenza tenuta dal professor Juan Raso sul celebre scrittore torinese, uno dei più grandi testimoni delle atrocità commesse dai nazisti contro gli ebrei.

"Questo incontro nasce da un fatto casuale. Un giorno, passeggiando per la rambla di Montevideo, mi sono imbattuto in uno spazio intitolato Espacio libre Primo Levi. Da lì sono scaturite una serie di riflessioni su questo importantissimo scrittore" ha raccontato in apertura Juan Raso, avvocato, docente universitario nonché prezioso collaboratore di Gente d'Italia.

Nato a Torino nel 1919 all'interno di una famiglia ebrea, ancor prima della letteratura Levi è stato innanzitutto un chimico dagli ideali profondi che ha vissuto una vita segnata da una drammatica esperienza: "Poco più che ventenne, nel 1943, scelse di unirsi ai partigiani antifascisti andando a combattere tra le montagne ma, a causa della sua inesperienza, venne subito arrestato dai fascisti. Si identificò come ebreo e questa condizione gli salvò la vita dato che, anziché essere fucilato, venne consegnato ai nazisti. Venne tenuto prigioniero prima in Slovenia a Monowitz, uno dei campi di concentramento di Auschwitz, in Polonia, dove arrivò il 29 aprile del 1942. Qui passò 10 mesi fino alla liberazione per mano dell'Armata Rossa. Dei 650 ebrei italiani che partirono insieme a lui fu una dei venti fortunati che riuscì a sopravvivere allo sterminio. La sua condizione di chimico gli permise di lavorare nell'ospedale di Auschwitz e dopo la liberazione nel gennaio del 1945 decise di restare per aiutare i prigionieri malati".

Lo scrittore torinese è conosciuto soprattutto per "Se questo è un uomo" dove "racconta la sua deportazione ad Auschwits, l'arrivo alla stazione del treno, la separazione tra le persone in condizioni per lavorare e gli altri che saranno in seguito uccisi. All'ingresso di quel campo c'è l'ironica frase Arbeit macht frei (Il lavoro rende liberi)". "Levi" -ha proseguito Raso nel suo appassionante intervento- "ci racconta il processo di spersonalizzazione vissuto dai deportati: vengono lavati, rasati, vestiti con un'uniforme carceraria a righe e hanno un numero tatuato su di loro. A volte all'interno del campo sorgono i problemi di convivenza di tante persone di lingue e culture diverse, la confusione nei pasti e i problemi igienici. Come ha scritto lui stesso, la cosa peggiore non era la violenza, la fame atroce, oppure la morte. La cosa peggiore era la degradazione dell'essere umano fino a convertirlo in un numero senza nome, nel suo caso 174.517. Una volta tornato a casa, Levi tornò a esercitare la sua professione. Come amava ripetere lui era un chimico diventato scrittore per casualità. Morì nel 1987 apparentemente per suicidio".

Esperto di diritto del lavoro, Raso ha cercato di analizzare il pensiero di Primo Levi anche sotto il punto di vista della centralità del lavoro nella vita dell'uomo. All'interno di questo vasto capitolo c'è il dolore profondo causato dalla disoccupazione o anche dall'emigrazione che portano a un vero ostracismo sociale come scrive l'autore: "Il rapporto che lega un uomo alla sua professione è simile a quello che lo lega al suo paese; è altrettanto complesso, spesso ambivalente, ed in generale viene compreso appieno solo quando si spezza: con l'esilio o l'emigrazione nel caso del paese d'origine, con il pensionamento nel caso del mestiere".

Tante altre sono state le riflessioni sul lavoro come espressione dell'identità umana che hanno accompagnato la sua opera: dalle analisi sulla condizione di schiavitù imposta nel lager alla convinzione profonda di come "l'amare il proprio lavoro" possa costituire "la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra". "I suoi pensieri sul lavoro contenuti all'interno del romanzo  "La chiave a stella" -ha spiegato il professore- "si nutrivano con la consapevolezza critica di chi ama nel bene e nel male il proprio lavoro. Proprio in quel libro scritto nel 1978, Levi unisce la sua idea sulla centralità del lavoro e la condizione di emigrante continuo del suo protagonista, un operaio giramondo altamente specializzato, trasferito continuamente in diverse aziende italiane sparse letteralmente nei 5 continenti".

Con la celebre poesia introduttiva di "Se questo è un uomo" Juan Raso ha voluto concludere la sua conferenza al Circolo Trentino: "Le sue parole sono un monito per noi ancora oggi, un messaggio per le nostre vite banali e le nostre lamentele frutto di una società di consumo che ci fa perdere di vista i veri valori".