di GIULIA BELARDELLI

È una grande maratona diplomatica giocata - contemporaneamente a Bali, ad Ankara, a Kherson - quella che gli Stati Uniti hanno messo in piedi per arrivare al G20 in Indonesia con qualche certezza in più rispetto alle due questioni geopolitiche più urgenti del presente: la guerra d'invasione russa in Ucraina e lo spettro di un confronto diretto tra Cina e Stati Uniti su Taiwan. Se l'incontro Biden-Xi è servito per rassicurare il mondo sull'intenzione di entrambi i Paesi a evitare una collisione, le manovre diplomatiche attorno alla guerra in Ucraina sono servite, da un lato, a rendere ancora più evidente l'isolamento di Vladimir Putin, dall'altro a far emergere il contenuto di discussioni sottotraccia per l'individuazione, in prospettiva, della fine del conflitto.

"Credo che questi eventi di oggi siano legati tutti da un filo rosso, che è quello di evitare l'escalation di situazioni pericolose e che rischiano di degenerare fino ad arrivare a trasformarsi in conflitti strategici", commenta  Giampiero Massolo, presidente dell'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale, già segretario generale del Ministero degli Esteri e direttore generale del Dipartimento delle Informazioni per la Sicurezza presso la Presidenza del Consiglio. "L'incontro Xi-Biden è un esempio abbastanza evidente di questo: qui il risultato eclatante è che il vertice si sia tenuto e che abbia fatto riprendere i contatti personali (i due si conoscono benissimo, ma è la prima volta che si vedono da presidenti). La ripresa di questi contatti vale di per sé ad attenuare la tensione e a porre un limite all'escalation. L'obiettivo era quello di trovare una modalità di gestione di un rapporto tra le due maggiori potenze mondiali, che sono potenzialmente in conflitto strategico. Era diventato molto urgente - vista anche la modalità aggressiva di Xi nel Mar Cinese Meridionale nei confronti di Hong Kong e Taiwan - iniziare a cercare delle modalità per attenuare questo corso degli eventi, allo scopo di evitare una collisione".

È per certi versi paradossale che Biden e Xi – nella loro ricerca di una rivalità prevedibile – abbiano trovato un terreno comune nel prendere le distanze da Putin, seppur limitatamente alle minacce nucleari. "Un obiettivo convergente – osserva Massolo - è stato individuato nel contenimento di quelle che sono state lette, tanto a Washington quanto a Pechino, come delle preoccupanti e inopportune tendenze di Putin ad agitare il rischio dell'impiego di un'arma nucleare, sia pure di teatro e non strategica. Sia Biden sia Xi concordano sul fatto che questo rappresenti una linea rossa invalicabile".

Ed è questa linea rossa invalicabile che consente di unire i puntini degli avvenimenti di giornata, per rendersi conto che c'è, nel disastro dell'oggi, una nota di speranza: l'impegno comune dei titani del mondo a evitare collisioni ed escalation, un quadro che consente di pensare che un giorno – quando la situazione sul terreno sarà matura – anche in Ucraina potranno finalmente tacere le armi. Nulla di questa vigilia del G20 è stato casuale. Mentre a Bali Biden e Xi lanciavano un monito congiunto contro l'uso delle armi nucleari in Ucraina e il Financial Times svelava retroscena sul disagio cinese per l'invasione russa, le agenzie battevano la notizia dell'incontro ad Ankara tra funzionari russi e statunitensi. Più tardi è stata la Casa Bianca a svelare i protagonisti: il capo della Cia William J. Burns e il suo omologo russo, Sergey Naryshkin. Durante l'incontro – ha spiegato il Consiglio di sicurezza Usa – Burns ha messo in guardia Naryshkin dall'uso di armi nucleari in Ucraina, una mossa volta a dare concretezza all'avvertimento sinoamericano. Quasi contemporaneamente, il presidente ucraino Volodymyr Zelensky – in visita a sorpresa nella città liberata di Kherson - definiva il ritiro russo come "l'inizio della fine della guerra". "Siamo pronti per la pace, ma per la nostra pace: per tutto il nostro Paese, tutto il nostro territorio", ha dichiarato, senza menzionare esplicitamente la Crimea, annessa illegalmente dalla Russia nel 2014 e dunque territorio ucraino in base al diritto internazionale.

Nel caso della guerra in Ucraina – commenta Massolo - "il filo rosso è rappresentato dai tentativi di evitare una pericolosa escalation, quindi un allargamento del conflitto ucraino. Gli ucraini stanno facendo del loro meglio - e con successo - per riguadagnare quanto più territorio possibile prima dell'arrivo dell'inverno. La Russia tenta da un lato di contenere il danno, dall'altro di fare tutto il possibile per dividere l'Occidente con l'obiettivo di evitare che la Nato continui ad aiutare gli ucraini. Da una parte, quindi, c'è questa riconsiderazione degli obiettivi (di qui anche il ritiro dal Kherson), dall'altra l'idea di allargare il conflitto in modo da provocare conseguenze negative tali da compromettere, alla lunga, la compattezza dell'Occidente".

Il rischio di escalation – argomenta Massolo – c'è per vari motivi: non sono escludibili attività russe dirette all'allargamento dei conflitti in altre aree di crisi, né l'ulteriore insistenza sull'arma energetica o migratoria, fino alla minaccia nucleare (è tornato a farlo solo pochi giorni fa Medvedev). Di qui la necessità di imprimere una de-escalation. "Che vi fossero dei contatti più o meno tecnici tra gli Stati Uniti e la Russia si sapeva, che poi si fossero parlati i ministri della Difesa pure. Adesso viene fuori che si sono visti anche i capi dell'intelligence: tutto questo è funzionale non ancora alla ricerca di un'ipotesi di soluzione, ma - per ora - alla de-escalation, all'attenuazione dei rischi e delle minacce".

Massolo è cauto sull'impatto di questi sviluppi su una possibile fine della guerra in Ucraina. "Una situazione di questo genere non sfocia verso un serio negoziato di pace (la situazione sul terreno non è ancora matura), ma può sfociare (anche per via delle condizioni meteorologiche) verso delle forme (prima di fatto e poi, auspicabilmente, concordate) di cessate il fuoco. Il modello è sempre quello che sperimentiamo sull'accordo del grano, che speriamo venga prorogato", spiega Massolo. "Si va verso l'inverno, e dunque verso un congelamento della situazione sul terreno. Non vi è soluzione militare alle viste. Auspicabilmente si può pensare e lavorare per un cessate il fuoco, nel frattempo attenuando i rischi, prima di tutto quello dell'escalation".

Mosca, per ora, non ha alcuna intenzione di ritirarsi, e probabilmente non lo farà fino a quando non si convincerà che il massimo risultato a cui può ambire è un compromesso che sposti più in là nel tempo una soluzione diplomatica per lo status della Crimea e (eventualmente) delle zone del Donbass che erano sotto il suo controllo prima dell'invasione del 24 febbraio. Per il Cremlino sarebbe complicato spiegare al partito dei falchi – ma anche all'opinione pubblica – una tale assenza di risultati, dopo tutte le promesse di gloria e tutto il sangue versato. Se da questo punto di vista non ci sono cambiamenti, la debolezza di una Russia rinnegata – almeno in parte – dall'ex "amica senza limiti" non è mai stata così evidente: l'altolà alla minaccia nucleare affermato congiuntamente da Biden e Xi, unito all'impegno americano e occidentale a sostenere militarmente l'Ucraina per tutto il tempo necessario a raggiungere una "pace giusta" per Kiev, mostra tutta la debolezza del ricatto atomico di Mosca. Qualora Putin ricorresse davvero al gesto estremo di sganciare un ordigno nucleare tattico (anche solo in mare, a scopi dimostrativi), le conseguenze per il suo Paese sarebbero devastanti, sia sul piano militare sia su quello economico.

Il fatto che l'opzione più razionale, per la Russia, sia cercare un modo per uscire dalla guerra non significa affatto che Putin, alla fine, si risolverà in tal senso. Ed è per questo che gli Stati Uniti restano molto cauti sul significato della vittoria di Kherson, come ha sottolineato Biden al termine del suo bilaterale con Xi. A Kherson le forze ucraine hanno ottenuto una "vittoria significativa", ma "è difficile dire cosa significhi" per l'esito del conflitto, che "resta da vedere". Nel frattempo gli Usa - ha aggiunto - continueranno a fornire a Kiev i mezzi per difendersi dall'aggressione russa.

Non è un mistero che la questione della riconquista della Crimea sia un argomento di discussione tra americani e ucraini. Nei giorni scorsi – ha rivelato il Wall Street Journal – il consigliere della Sicurezza nazionale della Casa Bianca Jake Sullivan ha suggerito a Zelensky di mostrarsi aperto a possibili negoziati con la Russia: farlo - è la convinzione dell'amministrazione americana - gli consentirebbe di avere maggiore peso e fare più leva sulla controparte. Sullivan, in particolare, avrebbe raccomandato al presidente ucraino di iniziare a pensare a "richieste realistiche e priorità per le trattative, inclusa una rivalutazione" dell'obiettivo di riguadagnare la Crimea. Sono discorsi di fronte ai quali il governo di Kiev manda dei segnali di apertura. "L'appoggio alla guerra nella Federazione Russa sta diminuendo", ha commentato il consigliere presidenziale ucraino Mykhailo Podolyak. "Nella società comincia a formarsi un'opinione: 'è ora di farla finita'. Politicamente e mentalmente, la Russia non è ancora pronta per dei veri negoziati e il ritiro delle truppe. Ma accadrà. Subito dopo la liberazione di Donetsk o Luhansk".

Se la strada per la pace non si vede ancora, quella per una tregua di fatto – imposta anche dall'inverno – è densa di incognite. "Ipotizzare che i russi si ritirino dalla Crimea senza che questo venga provocato da un conflitto militare che a quel punto non potrebbe che coinvolgere la Nato significa non andare da nessuna parte", conclude Massolo. "Realisticamente, ci sarà un momento in cui di tutte queste cose occorrerà prendere atto, ma non è ancora questo". Nel mentre il mondo può trarre un sospiro di sollievo: i due Paesi più potenti del mondo hanno preso un impegno a mettere la sicura – almeno per ora – a uno scenario da terza guerra mondiale. Non è l'Ucraina oggi, non sarà Taiwan domani.