Martina Minichini

 

 

 L'OSSERVATORIO ITALIANO

di Anonimo Napoletano

 

 

Se vuoi ottenere una casa popolare per te e la tua famiglia, a Napoli non serve rivolgersi al Comune. Specialmente se a quella casa non hai diritto. Puoi averla comunque, ma devi “fare domanda” all'amministrazione della Camorra Spa. E anche se all'alloggio popolare hai diritto, è sempre al clan che devi rivolgerti, e al clan devi pagare, se non vuoi fartela togliere con le buone o con le cattive maniere. È lo scenario che emerge dal maxi-blitz di questa settimana che ha portato a 62 arresti nei confronti di altrettanti affiliati dei clan egemoni nell'area orientale, da San Giovanni a Teduccio a Barra e Ponticelli: le famiglie De Luca Bossa, Minichini, Rinaldi, Reale e Casella. Una “santa” alleanza che estende i propri tentacoli sia nei comuni limitrofi di Cercola e Marigliano, sia verso il centro del capoluogo campano, tra piazza Mercato e Forcella, in competizione armata con il clan Mazzarella e i suoi alleati. Ma per i De Luca Bossa e i Minichini la retata di pochi giorni fa è una vera e propria mazzata che decapita i ranghi delle cosche a tutti i i livelli, dai capi ai gregari. Tra di loro molte le donne che gestiscono, all'interno dei rispettivi sodalizi criminali, ruoli sempre più importanti.

Le accuse non riguardano solo la compravendita abusiva di alloggi popolari, con il contorno di minacce, ricatti, violenze, sgomberi forzati di cui fanno la spesa le povere famiglie legittime assegnatarie delle case popolari. Nella lunghissima ordinanza di custodia cautelare trovano posto anche i più “tradizionali” reati di associazione a delinquere di stampo mafioso, estorsione, armi, droga, e poi anche un “nuovo” business, quello delle donne da far sposare fittiziamente con immigrati stranieri per far ottenere loro in pochi anni la cittadinanza italiana: ovviamente dietro il pagamento di un sostanzioso corrispettivo al clan locale.

Gabriella onesto

Ma è il controllo delle case popolari il reato che più scandalizza, perché la camorra va a sostituirsi totalmente al sistema di welfare che dovrebbe essere gestito dal Comune, e perché va a colpire proprio i più deboli, le famiglie che non hanno nemmeno un tetto sotto cui dormire. Sono numerosi gli episodi riportati nelle oltre millecinquecento pagine dell'atto di accusa della procura antimafia. In parte li raccontano i pentiti, primo tra tutti Tommaso Schisa, che nei clan di Napoli Est ricopriva un ruolo di tutto rispetto, in parte li rivelano le conversazioni degli affiliati intercettate da microspie ambientali o telefoniche, e in qualche caso li denunciano le stesse vittime dei soprusi. C'è per esempio la giovane coppia con una figlia di un anno costretta a lasciare la propria abitazione per cederla al clan. Il motivo? Una vendetta di un boss nei confronti della donna, che era stata legata a lui sentimentalmente prima di ritornare a unirsi al padre della sua bambina. Per questo fu cacciata dal quartiere e dal suo alloggio popolare. Oppure c'è il caso di una donna che si è vista bullizzare per mesi il figlio in età scolare, con tanto di aggressioni per strada. Altre donne di malavita le urlano che deve chiudersi in casa con i figli e non farli uscire. Lei si rivolge al boss del quartiere, Umberto De Luca Bossa in persona, che dopo averla ascoltata le chiede 5mila euro per continuare a vivere in pace nel suo alloggio popolare. La donna capisce l'antifona, prende la famiglia e si trasferisce da parenti lontano dal quartiere. Dopo pochi giorni tre donne assaltano la sua abitazione ormai vuota, rompono la serratura e si appropriano della casa. La vittima però ha ripreso la scena con una telecamera a circuito chiuso e ha consegnato le immagini alle forze dell'ordine. Tra le donne che fecero irruzione c'era anche Gabriella Onesto, indicata dal pentito Tommaso Schisa come la principale organizzatrice del business delle case popolari. Sì, perché gli appartamenti vengono acquisiti dal clan col fine di “rivenderli” o di darli in affitto a persone legate alla malavita. Il prezzo varia dai diecimila ai ventimila euro per prendere possesso di un appartamento popolare. Chi non può permettersi queste cifre può sempre affittarlo, versando nelle casse del clan una somma variabile dai 200 ai 300 euro al mese. Trattandosi di un immobile di proprietà pubblica, gli occupanti non possono rivenderlo o passarlo in eredità. Capita perciò che quando un vecchio occupante muoia, i figli riconsegnino l'immobile ai boss che lo rimettono sul mercato. Se invece c'è penuria di case, il clan non si fa scrupolo di “acquisire” gli immobili con metodi violenti. In una intercettazione gli inquirenti hanno ascoltato un certo Ciro riferire alla ras degli alloggi come era entrato in uno di essi: «Abbiamo rotto il muro e buttato a terra il cancello». Spesso a finire nelle mire del clan sono case momentaneamente vuote, o perché i legittimi assegnatari sono in ferie o perché l'unico inquilino è ricoverato in ospedale. Al ritorno la serratura di casa è cambiata e protestare non conviene, se si vuole vivere in pace. In altri casi, invece, per costringere le persone a lasciare la casa popolare si ricorre a minacce e aggressioni fisiche, fino a che la vittima designata non si arrende. È questo il “welfare” della camorra a Napoli, un welfare dove a farne le spese sono sempre i più deboli e indifesi.