di VINCENZO VITA

Sull’esempio dell’Ungheria e della Polonia, anche in Italia la tendenza è quella di ridimensionare la libertà di informazione. A differenza di altre fasi in cui attacchi e ritorsioni, editti bulgari e cattiverie non sono mancati, oggi il disegno è di mettere in discussione lo stesso diritto costituzionale.

La cavalcata su reti e testate della Rai è uno degli obiettivi salienti dell’iniziativa in corso. E se il sindacato dei giornalisti del servizio pubblico si frappone alla conquista dello storico obiettivo della destra, ecco che ritorna lo squallido metodo Boffo, dal nome del direttore dell’Avvenire, reo di non piegarsi alle volontà dell’allora governo.

Nel mirino finisce l’ex segretario e ora presidente della Federazione nazionale della stampa Vittorio Di Trapani.

Nel marasma è finita pure l’associazione Articolo21, colpevole a sua volta di attaccare le mirabolanti imprese della destra e di non demordere. Tutto questo è la traccia visibile di una vera e propria tendenza, come dimostrano il ricambio forzoso del vertice del Centro sperimentale di cinematografia attraverso un emendamento leghista al decreto Giubileo o le manovre attorno ai luoghi storici dell’industria culturale.

L’evocato cambio di narrazione è solo il pannicello caldo per conferire dignità ad una brutale occupazione, realizzata senza avere alcuno scrupolo, persino rinverdendo il citato metodo Boffo. In verità, il progetto -vedi Ungheria e Polonia- è di indebolire dalle fondamenta un diritto fondamentale.

Per la democratura che si sta affermando pure in Italia la libertà di informazione è un orpello pericoloso. Meglio un popolo ignorante e poco informato, aggredito nell’immaginario con scalette di notizie addomesticate e rese megafono del governo. Vedi il caso inquietante del Tg1. Non si usi l’articolo 21 per una vicenda come quella del libro del generale Roberto Vannacci. Su quel testo non a caso si sta giocando un marketing voluto o inconsapevole.

Non l’articolo 21, bensì il 53 sulle qualità richieste a chi riveste ruoli pubblici è da applicare all’alto graduato. Fa bene il campo progressista a chiedere conto a Giorgia Meloni, ormai star indefessa dell’informazione di regime, ma silente su tale vicenda, su cui si esercitano diversi esponente di Fratelli d’Italia, oltre all’immancabile Salvini, alla ricerca del consenso perduto. Ma il panorama è allarmante.

Si uniscono all’inferno in terra le costanti querele temerarie, volte a censurare preventivamente chi osa addentrarsi negli arcani dei poteri. Proprio la crescente precarietà nel lavoro e gli attacchi al giornalismo di inchiesta rendono bassa la posizione dell’Italia nelle classifiche internazionali. È bene guardare con occhi vigili ad un quadro da non sottovalutare.

Il forte ridimensionamento dell’indipendenza dell’informazione e l’omologo attacco alla magistratura costituiscono il tessuto connettivo della post-democrazia. La bilancia dei e tra i poteri va schiacciata: chi governa deve comandare, senza voci critiche e intralci.

Ci si sfoghi con i gossip e gli immancabili talk, dove trova la sua epifania la società dello spettacolo. Al punto in cui siamo è doveroso suonare le campane di un allarme straordinario. La scadenza delle prossime elezioni europee sia l’occasione per un’intesa tra i partiti contrari all’attuale esecutivo, in vista di scelte delicate che saranno dibattute a Bruxelles: dalla regolazione degli oligarchi della rete, al testo definitivo sull’intelligenza artificiale.

Ed è augurabile che la piattaforma della manifestazione promossa per il 7 ottobre dalla Cgil con ottanta associazioni contenga la difesa dell’articolo 21 della Carta fondamentale.