di Teresa Marchesi

Lacrime, famiglia e canzoni: sembra un Festival di Sanremo anni ’50 ma è la notte degli Oscar 2022, che applaude col linguaggio dei segni la suprema statuetta a “Coda - I segni del cuore”. Il più bel film del 2021, secondo l’Academy, è il remake americano di un film francese sulla figlia udente di una famiglia non udente. Rifare roba non tua, se vellichi i sentimenti, paga con gli interessi: giustifica altri due Oscar per l’attore non protagonista e la sceneggiatura non originale. Smentiti i rumors su un intervento di Zelensky via zoom: un cartello nero che invita a un minuto di silenzio liquida serenamente il problemino Ucraina. Un pugno sonoro di Will Smith a Chris Rock, colpevole di una battuta infelice sulla calvizie da alopecia della sua consorte, fornisce un diversivo di cronaca fuori programma. Morale: questa edizione numero 94 è tutta da dimenticare.

Delle 12 candidature per “Il potere del cane” Jane Campion si porta a casa solo l’Oscar per la regia. “Dune” monopolizza le statuette tecniche, sei, ammesso che montaggio e colonna sonora siano premi tecnici. Poche briciole sparse, e il resto è silenzio. Ma l’hanno visto, i votanti dell’Academy, un film come “Licorice Pizza”? Ed è sfuggita loro la formidabile sceneggiatura di “Don’t look up”? Didascalica ma strappacuore, trionfa la sceneggiatura di Kenneth Branagh per “Belfast”: si giudica in base ai kleenex utilizzati?

Sempre secondo l’Academy, “Drive my car” è meglio di “È stata la mano di Dio”, in barba all’eccesso di verbosità: Oscar per il film straniero. Sospendo il giudizio su “Crudelia”, Oscar per i costumi, e “Encanto”, Oscar per l’animazione: è il tipo di film che non corro a vedere. Ma il lavoro di Massimo Cantini Parrini per “Cyrano” e il piccolo outsider “Luca” di Enrico Casarosa restano un’eccellenza.

Nel 1968 a Venezia ha vinto un film di Alexander Kluge dal titolo “Artisti sotto la tenda del circo: perplessi”. Gli artisti c’erano, la tenda del circo era il Dolby Theatre e la perplessità è più che lecita. A Hollywood tira aria di ritorno al vecchio, con Jessica Chastain premiata per la recitazione sopra le righe de “Gli occhi di Tammy Faye” e Will Smith miglior attore piangente, che celebra la mission protettiva dei Pater Familias. È una gigantesca riscossa dell’America tradizionale e dei suoi valori.

La traballante poltrona di David Rubin, presidente dell’Academy, non ha futuro dopo uno show che per rincorrere l’audience televisiva ha esiliato dal palco premi come il montaggio e colonna sonora (Hans Zimmer, che ha vinto per “Dune”, per protesta non si è presentato). Non solo gli Oscar, anche lo show viaggia random. Canzoni, canzoni e ancora canzoni, proprio come a Sanremo, inframmezzate da una valanga esiziale di anniversari: i 60 anni di James Bond, i 50 del Padrino, i 28 di Pulp Fiction, e poi Cabaret... Senza fine, con relativa parata di icone. Il passato cannibalizza il presente... è un de profundis del cinema?

I Golden Globes sono franati sotto il peso di svariati peccati, che solo in parte riguardano la non-inclusione delle minoranze. Ma anche gli Oscar sono un fortino assediato dai malumori di fuori. Sean Penn, che aveva messo l’aut-aut sull’intervento di Zelensky, non è il solo a promettere ostilità e boicottaggio. Non si riesce nemmeno a godere perché per il secondo anno consecutivo trionfa il film di una regista donna, Sian Heder. È una cosa da festeggiare solo se insieme al sesso storicamente emarginato trionfa la qualità. Apple Tv batte Netflix e Amazon: ormai è solo una guerra per bande tra piattaforme. La comunità dei sordi scavalca, metaforicamente, le Paralimpiadi dell’audiovisivo e vince le Olimpiadi. È cosa buona, giusta e gratificante, sul piano umano: ma gli Oscar, nelle intenzioni, non dovevano premiare il cinema?