DI MARCO FERRARI

E’ il più sudamericano dei registi italiani: all’età di 65 anni Marco Bechis si è deciso a raccontare per intero in un libro la sua vita da desaparecido-sopravvissuto. Una storia personale ma collettiva quella contenuta nel volume da lui scritto, “La solitudine del sovversivo” edito da Guanda. Un’esperienza già tracciata in alcune sue opere, ma che per quasi mezzo secolo non lo ha mai abbandonato, sino a diventare un volume per capire la genesi del proprio esistere rispetto a chi non c’è più e non è riuscito a sopravvivere alla tragica esperienza di desaparecido. Rispetto all’idea di sommersi e salvati, trasmessa da Primo Levi, qui l’autore racconta un genocidio più recente, quello della dittatura argentina a cavallo tra gli anni ‘70 e ‘80.

Nei suoi taccuini, nella sua testa, nei suoi sospiri, Bechis ha accumulato e soprattutto custodito come in uno scrigno, una mole impressionante di dati perché gli servissero, in un giorno indefinito, ad avere giustizia. Il libro si apre a Buenos Aires il 19 aprile 1977. La scena sembra quella normale di una uscita da scuola, ragazzi, madri, nonni, insegnanti, invece il giovane Marco Bechis viene fatto salire su un Ford Falcon e sequestrato da un gruppo di militari in borghese. Il racconto ci porta alle radici del protagonista, alla sua infanzia vissuta tra Italia e Argentina, in quel paese dove tragicamente governa una dittatura militare. Apparentemente c’è una grande distanza tra ciò che accade nelle strade e la vita di Bechis, ragazzo di buona famiglia, cosmopolita, erudito. Come tanti giovani di allora, contrari ad ogni forma di oppressione, Bechis si avvicina al movimento di opposizione dei Montoneros e finisce nel mirino della polizia politica. Le sue vicissitudini in un carcere clandestino sono in fondo dell’esistenza da cui i genitori, dopo vari tentativi, riescono a tirarlo fuori. Quasi un miracolo in epoca di desaparecidos. Ma per molti altri ragazzi la sorte non è la stessa. Così Bechis si sente quasi colpevole per tutta la sua vita di sopravvissuto. Il libro è una liberazione, è la presa di coscienza di una vittima del terrore. Già in passato Bechis aveva fatto i conti con questa brutta faccenda inventando il titolo di uno film, “Garage Olimpo” che è diventato un po’ il simbolo della brutalità del generale Videla e dei suoi scagnozzi. Solo con questo atto conclusivo la vicenda si chiude perché il libro racconta il triste destino di un’intera generazione che è passata attraverso la dittatura sino al riscatto. Non a caso Bechis ci porta nell’aula del tribunale di Buenos Aires dove vede dietro le sbarre i suoi carcerieri. Marco Bechis, regista, sceneggiatore e produttore cinematografico, nato a Santiago del Cile da madre cilena di origine svizzero-francese e padre italiano, è cresciuto nelle metropoli di San Paolo e Buenos Aires dove ha svolto attività di maestro elementare. E proprio nelle sue funzioni, a vent’anni, viene arrestato e sequestrato dalle famigerate squadre della morte in un sotterraneo della Capital Federal. Appena riesce a raggiungere l’Italia si stabilisce a Milano, frequenta la scuola di cinema Albedo, vive tra New York, Los Angeles e Parigi e finalmente approda al mondo dell’immagine nel 1982 con la videoinstallazione “Desaparecidos, dove sono?”. Seguiranno opere cinematografiche importanti come “Alambrado” (1991), “Garage Olimpo” (1999), “Hijos/Figli” (2001), “Birdwatchers – La terra degli uomini rossi” (2008), “Il sorriso del capo” (2011), “Il rumore della memoria” (2015).

Il regista ha indagato molto anche sul fenomeno dei bambini sottratti alla nascita alla vera famiglia, dati in dono come bottino di guerra ai militari assassini, seguendo le madri e le nonne di Plaza de Mayo. Al centro del suo interessa resta il Sud America: il Cile, dove nasce; il Brasile dove trascorre l’infanzia; l’Argentina, approdo decisivo, quello che gli cambia la vita. Il tutto seguendo il padre milanese, dirigente Fiat, che si sposta ovunque il suo lavoro lo richieda, segnato tragicamente dalla prematura scomparsa di un bambino, il fratello Robertino. Il tutto sino all’evento del sequestro quando, bendato, giunge in una di quelle camere della tortura che il più delle volte segnavano solo una tappa terribile prima del volo della morte. Non caso le pagine più emozionanti sono quelle che riguardano la “picana”, lo strumento elettrico preferito per torturare i prigionieri: “Legato qui, nudo su un tavolo di ferro, con le gambe spalancate e i genitali a disposizione di chiunque” rammenta Bechis.