Il triumvirato tra Cassio, Cesare e Pompeo era stato un brutto colpo per l'aristocrazia senatoria, che aveva anche dovuto ingoiare una serie di riforme a favore della classe popolare e vedere il suo potere  alquanto ridotto; per di più, le magnifiche vittorie di Cesare nella guerra gallica avevano procurato al triumviro una sempre maggiore popolarità, tanto che il Senato incominciò a temere che l'ambizioso proconsole potesse sfruttare la sua forza ed il suo immenso prestigio per ottenere ancor maggiore potere nella politica romana.
C'erano però stati in quegli anni tre eventi che vennero a modificare gli equilibri raggiunti con il triumvirato: la morte di Giulia, nel 54 a.C., che rompeva quel legame familiare tra Cesare e Pompeo, la morte di Crasso, avvenuta nel 53 durante la campagna contro i Parti, e la morte di Clodio Pulcro (18 gennaio 52), avvenuta ad opera della banda di Milone che, in verità, aveva solo reagito ad un attacco della banda dell'ucciso. 
Le due bande, in quegli anni, avevano infestato la vita della capitale, turbandola con una catena di omicidi politici e, dopo l'uccisione di Clodio, la situazione a Roma divenne ancor più incandescente.
Il Senato approfittò quindi dell'occasione per riallacciare i contatti con Pompeo, peraltro sempre disponibile a difendere la res publica e le istituzioni: i senatori si erano probabilmente resi conto che proprio la loro scarsa riconoscenza nei confronti del fortunato e glorioso generale, sempre corretto e ligio al dovere, aveva favorito la nascita del triumvirato, con le riforme e gli eventi che ne erano conseguiti.
Incaricò quindi Pompeo, l'unico triumviro rimasto nell'urbe, di riportare l’ordine, conferendogli (febbraio del 52 a.C.), a soli tre anni di distanza dal suo secondo consolato, un incarico senza precedenti, quello di consul sine collega, vale a dire di console unico. Pompeo fu lusingato da quell'inatteso attestato di stima.
Pompeo non era mai piaciuto molto al Senato (geloso della sua ricchezza e delle sue vittorie) ma Cesare piaceva ancora meno; più volte il Senato aveva dimostrato nei confronti di Pompeo una totale ingratitudine, pur tuttavia gli riconosceva un atteggiamento sempre leale, il senso della legalità, un grande senso dello Stato e del dovere ed un grande equilibrio: mai fazioso, sempre corretto e super partes.
Cesare, invece, era temuto, i senatori diffidavano di lui: temevano per la res pubblica e per loro stessi!
Cesare non protestò per l'incarico conferito a Pompeo e non pose alcun veto attraverso i "suoi" tribuni della plebe (del resto non aveva nulla da temere giacché, verso la fine del 53 a.C., dopo la morte di Crasso, i due triumviri si erano incontrati a Ravenna ed avevano stabilito un nuovo patto privato tra loro).
Pompeo, come suo solito, si tuffò nell'incarico ottenuto con grande impegno: non solo seppe riportare la pace in città ma operò anche con grande imparzialità; i senatori, quindi, consci che in tutta Roma non vi fosse un altro che potesse difenderli dallo spauracchio esercitato da Cesare, un po' alla volta, seppero far leva sul senso del dovere del console unico, per attirarlo dalla loro parte, allontanandolo gradualmente da Cesare.
Lo scontro temuto tra Senato e Cesare stava per deflagrare; si manifestò, infatti, in tutta la sua criticità quando Cesare, allo scadere del mandato quinquennale in Gallia, chiese di candidarsi in absentia all'elezione a console per l'anno successivo: tornare a Roma come privato cittadino, dopo aver sciolto le legioni, era come affidarsi, inerme, alla vendetta del Senato.
Preso però atto dell' ostilità del Senato nei suoi confronti, preferì non forzare la mano e decise di rinunciare alla richiesta per optare per un prolungamento dell'imperium sulla Gallia fino al 48. Pompeo e Cicerone si pronunciarono a favore ma il Senato, che pure non sarebbe stato proprio scontento di sapere Cesare ancora lontano da Roma, sotto l'incalzare del console Lentulo e dei senatori Catone (l'Uticense, il fratellastro di Servilia, che con Cesare ce l'aveva a morte) e Marcello, gli negò anche questo: ora il senato, che poteva contare su Pompeo e su tutto quello che questi rappresentava, si sentiva forte e intimò a Cesare di sciogliere le legioni e di presentarsi a Roma da privato.
Cesare capì il rischio cui andava incontro ed avviò con il Senato una serie di trattative, finalizzate a consentirgli di tornare a Roma senza dover temere per la sua vita; tra le altre cose dichiarò che avrebbe congedato le sue legioni se anche Pompeo avesse fatto altrettanto.
Per tutta risposta, il Senato, con l'evidente scopo di indebolirlo, gli chiese una delle sue 10 legioni (più quella, ricevuta in prestito da Pompeo) con la scusa di rafforzare il contingente in Siria, dove Roma era impegnata ancora nella guerra contro i Parti. 
Altrettanto fece con Pompeo, che ubbidì celermente; anche Cesare, quindi, dovette inchinarsi al volere del senato e cedere le legioni I e XV.
L'intenzione del Senato sottesa a tale richiesta era chiara tanto che Cesare, mentre attendeva la fine delle trattative, si preparava a difendersi; si recò nella Cisalpina con la legio XIII (l'unica che aveva in Italia, delle nove che gli erano rimaste) e, contemporaneamente, diede ordine alle legio VIII e XII, che erano accampate a Matisco, di raggiungerlo. 
Si fermò con il suo esercito nei pressi di Rimini, sul Rubicone, il fiume che segnava il confine tra la Gallia Cisalpina ed il territorio di Roma e che, secondo quanto stabilito da Silla dopo la guerra civile con Mario, non poteva essere oltrepassato dai generali romani senza che questi sciogliessero prima il proprio esercito.
Lì fu raggiunto dai tribuni della plebe, che lo informarono non solo che le sue richieste (il mantenimento in armi di sole 2 delle sue legioni, analogamente a quanto chiedeva per Pompeo) erano state respinte ma che, addirittura, era stato emesso nei suoi confronti un senatus consultum ultimum, il provvedimento che concedeva pieni poteri ai consoli per agire in difesa della repubblica. 
Il Senato aveva dichiarato Cesare un nemico dello Stato!
Cesare parlò alla sua legione e la informò delle trattative intercorse e delle loro conclusioni, delle determinazioni assunte dal Senato e del pericolo che lui correva; chiarì le sue intenzioni e lasciò tutti liberi di scegliere se seguirlo o meno. 
I soldati della legio XIII erano in gran parte galli del Piemonte e della Lombardia e se ne infischiavano di Roma; loro combattevano per il loro generale, che camminava con loro, mangiava con loro e che li aveva portati negli ultimi 10 anni in giro per mezza Europa, di vittoria in vittoria. Aveva dato loro anche la cittadinanza, che il Senato non voleva avallare. Decisero tutti, senza un minimo tentennamento, di seguirlo, ben sapendo che si andava incontro ad una nuova guerra civile; uno solo abbandonò Cesare, uno dei suoi migliori luogotenenti: Tito Labieno, che abbandonò quasi furtivamente il campo, per raggiungere Pompeo. 
Cesare lo fece inseguire: nella fretta di scappare Labieno aveva dimenticato di portare con sé il suo bagaglio e non aveva esatto il rateo del suo stipendio (si pagava ogni tre mesi). Gli furono consegnati l'uno e l'altro.
Ebbe un gran fortuna Cesare che Tito Labieno decise di passare con Pompeo: fu proprio conoscendo Labieno che Cesare, come in seguito si vedrà, potette infine trionfare a Farsalo.
Tutti i suoi tentativi di accordo erano stati rifiutati: Cesare non aveva più scelte. Fu allora che, secondo la tradizione, pronunciò la frase "alea iacta est" (Il dado è tratto) o, come ci dice Plutarco, "iacta alea esto” (si getti il dado) e varcò il Rubicone, che delimitava il pomerium (il confine invalicabile in armi), entrando con l’esercito in Italia. Era il 10 gennaio del 49 a.C..
Pompeo, proprio in quei mesi, stava preparando l'esercito per affrontare Cesare ma la rapidità di questi lo colse impreparato: come un fulmine Cesare si abbatté sui centri di mobilitazione di Pompeo e le sette legioni che questi aveva raccolto a Sulmona passarono, senza colpo ferire, dalla parte di Cesare.
Intanto lo avevano raggiunto anche le legioni XII e VIII; dovunque passava le città si aprivano davanti a lui e lo salutavano come un dio, scrisse Cicerone, anche lui, forse, pentito di aver seguito la scelta dei senatori.
Cesare avanzava trionfante verso sud, verso Roma e, non si abbandonò a saccheggi, a vendette: tutte le città incontrate sul suo cammino furono trattate con clemenza. Avanzando inviò numerosi messaggi di pace a Lentulo, innanzitutto, ma anche a Cicerone, pregandolo di intercedere con Pompeo. Non ebbe nessuna risposta.
Pompeo e il senato furono colti di sorpresa e disorientati dalle mosse inattese quanto rapide di Cesare e, non avendo forze sufficienti per resistergli (parte delle legioni di Pompeo erano in Spagna ed altre 2 erano state inviate in Siria, altre erano in Sicilia), con le uniche 5 legioni a loro disposizione, incominciarono anche loro ad avanzare, non contro Cesare, però, ma verso sud, verso Brindisi (con Pompeo fuggiva una parte consistente dei senatori con le loro corti), per rifugiarsi in Grecia, dove Pompeo godeva di ottime relazioni con i governanti orientali sin dall’epoca della guerra mitridatica e dove pensava di poter facilmente arruolare un valido esercito.
Forse, ma questo i senatori non lo sapevano, Pompeo voleva evitare di scontrarsi con Cesare, pensava di prenderlo per fame, bloccandogli i rifornimenti di grano che venivano dalla Sicilia, dove c'era l'esercito di Catone (il "cognatastro" di Cesare) e dalla Spagna, dove c'erano i pompeiani.
La scelta di abbandonare l’Italia, sebbene a tal punto fosse quasi imposta (fino all'ultimo i senatori, accecati dall'odio, avevano rifiutato ogni ipotesi di pace), fu politicamente una scelta sciagurata: consegnarono Roma a Cesare.
Cesare giunse nell'urbe il 16 marzo: lasciò il suo esercito alle porte della città, come voleva la consuetudine, ed andò a trattare; anche quei quattro gatti di senatori e magistrati che erano rimasti, pure senza difesa, si mostrarono altezzosi e supponenti: respinsero tutte le richieste di Cesare che, stanco, esclamò: "tanto mi è difficile pronunciare minacce, quanto mi è facile eseguirle". Nemmeno finì di parlare e già gli altezzosi di prima erano tutti proni: gli fu concesso tutto quello che chiedeva, prima di tutto il tesoro dell'erario, con il quale, prima di ogni altra cosa, accontentò i suoi sodati.
 
Cesare, messe le cose in chiaro a Roma, non inseguì subito i nemici in fuga (tanto più che gli mancavano anche navi sufficienti); volle prima proteggersi le spalle ed assicurare i rifornimenti a Roma (che, poi, era quello che interessava ai cittadini). Mandò, quindi, due legioni in Sicilia contro Catone, che fuggì in Africa (morirà suicida nel 46, ad Utica, dove si era ritirato dopo la sconfitta di Tapso) mentre in Spagna andò direttamente lui. Incontrò più difficoltà di quelle che si aspettava ma, in capo a due mesi, vinse ogni resistenza; manco a dirlo, trattò con l'usuale clemenza gli sconfitti.
Tornò a Roma acclamato dal popolo; il Senato gli offrì il titolo di dittatore, che rifiutò: gli bastava quello di console che gli conferirono i cittadini per l'anno 48 a.C..
A questo punto la situazione giuridica si era capovolta: ora era Cesare il legittimo rappresentante della repubblica, mentre i suoi avversari erano dei ribelli.
Sistemò le faccende interne dello Stato, senza processi, senza vendette o confische, e solo a questo punto si mise all'inseguimento di Pompeo che, intanto, aveva radunato in Albania un imponente esercito ed una flotta di 5/600 navi.
Cesare raccolse il suo esercito a Brindisi ma la scarsezza dei mezzi (aveva appena 12 navi) e le condizioni atmosferiche avverse (era l'inverno del 48) gli impedirono di portare sull'altra sponda dell'Adriatico tutte le sue forze: una buona metà sarebbe giunta dopo.
La traversata fu rischiosa ed avventurosa: fu avversato dal maltempo e non si è mai capito perché Pompeo, in grandissima superiorità di mezzi, non si decise ad attaccarlo (forse Pompeo proprio non voleva...).
L'esercito non era ancora riunito quando, nel luglio del 48 a.C., i due schieramenti vennero a contatto, nei pressi di Dyrrhachium (odierna Durazzo, in Albania); Cesare, molto inferiore per forze, ebbe la peggio ma, incredibilmente, Pompeo, anche questa volta, non seppe sfruttare la situazione di vantaggio che si era venuta a creare, per dare a Cesare il colpo di grazia.
Scampato il pericolo, Cesare poté riunire tutte le sue forze, grazie al suo luogotenente, Marco Antonio, che era riuscito a portare in Tessaglia l'altra metà dell'esercito, consentendogli così di riorganizzare l'offensiva.
Gli eserciti si trovarono di fronte, pronti per lo scontro finale, a Farsalo, città della Tessaglia sud-orientale. Il luogo era ritenuto da Pompeo poco favorevole per la battaglia e, pertanto, lui avrebbe voluto ancora rinviare la resa dei conti (proprio non se la sentiva...), ma, come ci racconta Plutarco, fu spinto a rompere gli indugi dal suo consiglio di guerra.
Pompeo era stato un grande generale, un fedele e capace esecutore degli ordini, ma non aveva mai posseduto quella personalità e temerarietà propria dei visionari; non l'aveva avuta da giovane, baldanzoso e bello, figurarsi ora, imbolsito dall'età e circondato da tanti parassiti, ricchi e viziosi, ognuno con la propria strategia, e di cui lui non si sentiva di esser parte.
A Farsalo Cesare dette una ulteriore prova della sua abilità, pur contrapposto ad un generale altrettanto grande e glorioso: Cesare previde le mosse di Pompeo (o, meglio a dire, le mosse di quel Tito Labieno che lo aveva abbandonato e che ora guidava la cavalleria di Pompeo) e le neutralizzò. Così, nonostante Pompeo disponesse di un esercito con forze più che doppie rispetto a quelle di Cesare (45.000 fanti contro 22.000, e 7.000 cavalieri contro 1.500), fu sconfitto.
Cesare perse nella battaglia circa 300, forse 500 uomini, mentre dalla parte di Pompeo ci furono circa quindicimila caduti; circa ventiquattromila soldati della parte di Pompeo si erano arresi a Cesare, appena videro i primi pericoli.
Quella sera del 9 agosto del 48 a.C., Cesare ed i suoi cenarono nel lussuoso accampamento pompeiano, nella magnifica e ricca tenda di Pompeo, piena di argenti, e nelle altrettanto lussuose tende dei senatori, pavimentate con zolle di erba fresca e coperte di edera, godendosi la festa che i pompeiani, sicuri di vincere, avevano preparato per loro.
Dopo la battaglia Cesare aveva fatto cercare tra i morti ed i feriti il corpo di Bruto (figlio di Servilia, a cui era sinceramente affezionato), temendo fosse tra questi. Tirò un sospiro di sollievo solo quando ricevette una lettera da Larissa con la quale Bruto gli chiedeva perdono e lo chiedeva anche per suo cognato Cassio (che aveva sposato Terzia, la figlia di Servilia, sì, proprio quella che aveva sostituito la madre nelle simpatie di Cesare).
Cesare, come al solito, li perdonò, ma trattò con clemenza anche gli altri prigionieri, limitandosi a giustiziare gli aristocratici che già avevano goduto in passato del suo perdono.
Pompeo riuscì a fuggire; dopo una lunga fuga approdò in Egitto, dove sapeva di trovare un presidio di veterani lasciato da Catone e Labieno. Qui, mentre credeva di aver trovato la salvezza alla corte del re Tolomeo, allora impegnato in una guerra fratricida con la sorella Cleopatra per la successione al trono, fu pugnalato alle spalle per ordine di questi, sotto gli occhi della moglie (che lo aveva raggiunto a Mitilene), mentre sbarcava da una scialuppa: gli assassini forse credevano con ciò di ingraziarsi Cesare.
Cesare sopraggiunse qualche giorno dopo ed ebbe lo sgradito regalo di un cesto contenente la testa di Pompeo ed l'anello con il suo sigillo; Cesare la vide e, avendone avuto orrore, non seppe trattenere le lacrime ed ordinò che i resti di Pompeo fossero consegnati alla famiglia.
Pompeo lo aveva tradito, si era rivoltato a lui ma Cesare lo stimava ed, in fondo, forse gli era anche affezionato: era stato suo collega, suo genero, avevano riformato insieme le istituzioni romane e, su questo non c'è dubbio, il vile assassinio non gli consentiva di compiere un ulteriore, sicuro atto di generosità e di clemenza.