Sergio Mattarella (foto Quirinale.it)

Come nello stile dell’uomo, non è un finale con botti o effetti speciali, anzi è esattamente l’opposto perché l’ultimo discorso di Sergio Mattarella è probabilmente tra i più brevi ed ecumenici del suo settennato. In piedi per una quindicina di minuti, con alle spalle la finestra del giardino illuminato, il capo dello Stato si congeda con la sobrietà e lo stile di chi, ritendendo esaurito il suo compito, non vuole indicare una prospettiva vincolante a un mondo politico già abbastanza avvitato nella scelta del suo successore. Quasi con distacco, inversamente proporzionale all’intensità – politica ed emotiva – di un settennato da far tremare le vene ai polsi, in cui la pandemia è precipitata su un sistema politico collassato e su una legislatura segnata dalla governabilità complicata.

Però, sia pur parlando in termini generali, nella rivendicazione elegante ed orgogliosa del proprio profilo c’è un’indicazione, che magari non è proprio un identikit, ma un principio non banale offerto ai partiti. La rivendicazione sta nella consapevolezza di chi lascia un paese, avendone preservata “l’unità istituzionale e morale”, proprio nel momento più difficile della sua storia. E questo è “il patriottismo concretamente espresso nella vita della repubblica”, e ogni riferimento ai patrioti à la carte in questa frase sembra semplicemente voluto. Unità resa possibile dallo straordinario “senso di responsabilità” degli italiani che, di fronte all’ignoto, hanno saputo attingere alle proprie risorse e seguire le indicazioni della scienza. E da quella profonda connessione sentimentale con le istituzioni che è forse la vera risorsa della Repubblica.

Ma questa unità, dice sostanzialmente Mattarella, non è un dato sociologico, ma anche una costruzione politica, fatta di scelte. E, ecco l’indicazione, il compito del capo dello Stato è stato ed è quello di esserne il garante. Questo vuol dire avvertire sin dal momento dell’elezione due “esigenze di fondo”: “spogliarsi di ogni appartenenza e farsi carico dell’interesse generale” e “salvaguardare ruolo, poteri e prerogative dell’istituzione che riceve dal suo predecessore”.

Parole dietro le quali è possibile rivedere i momenti più drammatici di questi anni, dall’appello, rivolto al paese, a vaccinarsi a quello, rivolto alle forze politiche, a sostenere il governo guidato da Mario Draghi, un nome che non uscì dalle consultazioni, ma frutto della decisione, difficile e solitaria, di evitare le elezioni anticipate che, in quel momento, avrebbero reso più complicata la campagna vaccinale, necessaria per far fronte all’emergenza sanitaria, e avrebbero messo a rischio il percorso del Recovery, necessario per far fronte all’emergenza economica: “La governabilità che le istituzioni hanno contribuito a realizzare – dice il capo dello Stato -  ha permesso al Paese, soprattutto in alcuni passaggi particolarmente difficili e impegnativi, di evitare pericolosi salti nel buio”.

E proprio sui vaccini c’è forse il passaggio più forte del discorso, ora che la quarta ondata è accompagnata dalla discussione su come renderli più stringenti e obbligatori: “Che cosa avremmo dato in quei giorni – si chiede Mattarella – per avere il vaccino?”. Il riferimento è alle settimane delle “bare” di Bergamo, delle “scuole chiuse” e del lockdown generalizzato, insomma dell’“impotenza” e della “disperazione”. Agli italiani bombardati dai virologi da talk show, dai professionisti dei distinguo e anche da una parcellizzazione delle misure cui è difficile stare dietro, tra estensione del super Green Pass per i bus ma non ancora per il posto di lavoro, dove forse arriverà comunque a breve, Mattarella ricorda, in modo semplice e comprensibile che “i vaccini sono stati e sono uno strumento prezioso, non perché garantiscono l’invulnerabilità, ma perché rappresentano la difesa che consente di ridurre i rischi per sé e per gli altri”.

Insomma, ci siamo “rialzati”, ma non è finita. Perché c’è un paese da riscostruire. E la parola “ricostruzione” è sempre declinata nella sua accezione non solo economica, ma anche “morale” e materiale. Che rende innanzitutto necessario uno sforzo nella mentalità con cui si affronta una fase che non si è chiusa e il ripudio della pigrizia nell’approccio, perché non c’è un’ora X in cui si torna al mondo di prima, ma una complicata trasformazione segnata da nuovi conflitti e “nuove disuguaglianze” sociali. E anche questa è un’indicazione. È il discorso della fine di un mandato, ma non di un’uscita di scena, nel senso che questo punto di vista sull’Italia resta. E, con esso, il rapporto morale costruito col paese. Buon anno