Tra XVI e XVII secolo accadono eventi essenziali per la storia mondiale e segnatamente europea. Galileo Galilei dimostra che la Terra non è il centro dell’Universo, dunque l’uomo deve, è costretto a riproporsi il posto nel Cosmo, dunque forse l’uomo non è la creatura centrale dell’Universo. La scoperta delle nuove terre, continenti, addirittura, muta lo sguardo che l’uomo europeo aveva su di sé, inoltre la Riforma Protestante accusa il cattolicesimo di aver tradito la necessità drammatica della salvezza eterna, l’orrore del peccato. Quest’insieme, da un aspetto fa tramontare il Rinascimento aprendo all’ambiguità del Barocco, nel quale la grandiosità ha spesso manifestazioni lugubri, mortuarie, o schiaccianti, ma è anche una celebrazione fastosa del cattolicesimo che annienta ed esalta il fedele soggiogato. Vi è anche chi si sottrae a questa celebrazione possente e opprimente, sovrana e tetra, vi è chi va diritto alla condizione umana e ne vede sangue, terrore, morte, delitto, vizio, con una tragicità scolpita nella pittura, figure robuste, rozze, sotto il segno della sofferenza, una religione dove non vi è redenzione, non vi è sorriso o se vi è un sorriso malato o corrotto, o ebbro. Stiamo dicendo, adesso, su Caravaggio, (Michelangelo Merisi) Vita sciaguratissima, tutta eccessiva, errante, perseguitata anche da se stessa, in se stessa, mai tregua, mai rassicurata, in urto, anzi, e sul punto del precipizio, in alto, in giù, una guerra, la sua, e la tela la mostra, evidenzia, scolpisce in pittura, dicevo, volti grossi, rudi, braccia forzute, occhi senza bontà, torsioni erculee, drappi rossi che sembrano uscire da un bagno di sangue, e ragazzi femminei, non il femmineo soave di Leonardo ma un femmineo di ragazzo depravatello, puttanello o briaco nella sonnolenza. Immaginiamoci nel tempo in cui i committenti, spesso cardinali, avevano ammirato la leggiadria di Raffaello, la potenza di Michelangelo, l’evanescenza misteriosa di Leonardo, adesso in Caravaggio vi è tutt’altra umanità. I personaggi vengono da un altro terreno sociale ed esistenziale. Vengono dalla miseria, dalla sofferenza e non c’è riscatto, o rarissimo. Prendiamo un quadro, ecco, l’ebreo Saulo che viene folgorato dal rimprovero di Dio, cade, è indifeso, schiantato, una Potenza massima lo abbatte, Saulo guarda da terra, sgomentato, vinto. Il cavallo lo sovrasta, il cielo lo sovrasta, è niente più che un uomo in balia della sorte. Come non vedere la nullità dell’uomo! E San Pietro crocifisso, a testa in basso che Egli tenta di alzare, pure in tal caso un uomo assoggettato, ed i carnefici impietosi a indaffararsi per dargli tormento. Gli altri, gli aguzzini. Prendiamo la morte della Vergine: terribile morte, niente di sacro, un drappo rosso sangue, un lutto cosmico. Prendiamo Gesù nella Cena di Emmaus, assorto, in ombra, chiuso nella sua missione. Prendiamo la Madonna di Loreto, una bella giovane bruna, una bella contadina, con una torsione del collo e del corpo che ne segna le forme, il piccolo in braccio, un aspetto difensivo. Un ragazzo grida morso dal ramarro, grida anche la furente Medusa, e sembrano con il grido mozzato i volti, le teste recise di Oloferne, Golia, Giovanni Battista, la bocca aperta ed il volto feroce ma vinto. Caravaggio sentiva e percepiva la realtà nell’aspetto tragico, dolorosissimo. Nella sconfitta. Ed anche l’aspetto sensuale, maschio-femmina nei ragazzi, e virilissimo negli uomini, splendore e sofferenza della carne, dei corpi. Caravaggio illustra dei corpi viventi, non sono corpi che esistono esclusivamente nella pittura, sono dipinti di realtà. Se Tiziano vecchio e Rembrandt spezzano la chiusura dei corpi, i contorni, e li annebbiano nella presenza esterna come a disfarsi, in Caravaggio non vi è disfacimento, i corpi mantengono le loro determinazioni lineari, contenute, ma questi corpi sono morbosi, feroci, malati, presi dalla morte o vivissimi. Caravaggio ha manifestato l’estrema vitalità e l’estrema dolorosità dei corpi non disfacendoli ma riempendoli di vita e morte eccedenti. In Caravaggio il “nero” dello sfondo non è uno sfondo ma il luogo oscuro, buio in cui siamo immersi e da cui emergiamo come lampi che evidenziano ancor più il buio. Tiziano da vecchio e Rembrandt manifestano la rovina dell’uomo togliendo ai corpi il contorno e facendovi entrare una lebbra che ne dissolve, ne sbriciola la consistenza, come non reggessero il tempo e le traversie, in Rembrandt specialmente i volti perdono compattezza e sono penetrati dall’esterno che li sfrangia. Caravaggio rende il tragico in modo opposto, nella delineazione fortissima dei corpi, incide, specie nei volti, segni disperatissimi, un dolore sopraffattivo, incontenibile, sgorgante, che li invade violentemente, laddove il tragico di Rembrandt è malinconico, afflittivo. È ossessionato dal volto degli uccisi, Caravaggio e li pone in vista sfrontata, dentro gli occhi di chi guarda, una esibizione di orrore, vuole che lo spettatore veda quelle teste mozzate e quel grido rimasto a mezzo ed ora è una smorfia cadaverica. Del resto anche il ritratto che dà di se stesso sembra esprimere passione sofferta, gli occhi grossi, colmi di interiorità, i capelli contorti, inselvatichiti, un’aria d’uomo preso dalle Furie, sovrastato da un se stesso che Egli non domina. Taluni “motivi” imperano in Caravaggio, dei volti in primo piano terribili, gettati nello sguardo di chi guarda, e poi taluni dei soggetti, molte la Cena di Emmaus, molti i San Francesco, i San Giovanni, i Bacco. Era la committenza a esigerli o era Caravaggio che li sentiva propri? I molti San Giovanni rivelano sempre corpi di ragazzi, una posa femminea, drappi rossi, è l’immagine che lo coinvolge, quella di un adolescente seminudo, uno scugnizzo, una femminella lasciva e popolana; le varie Cena di Emmaus mantengono sempre Gesù assorto, isolato dagli altri. Il Bacco, altra ossessione di Caravaggio, è malato, vizioso, e quando è gonfio di salute ha l’occhio briaco, svanito. E l’ossessione delle ossessioni, la testa tranciata, esposta, sanguinante. Ma vi è un ulteriore Caravaggio, in piena salute, sfolgorante, che luccica di vita rinascimentale anche se talvolta la immerge nel mistero, è il Caravaggio della Vocazione di San Matteo, una istantanea che immobilizza per l’eternità la elezione di Matteo da parte di Cristo; se esiste raffigurazione della presenza divina nell’umano, è in questo quadro, tutto si ferma , la luce, gli uomini, la postura, una sovrarealtà che giunge nella realtà, e stupisce, scolpisce e rende solennissimo quel momento incidendolo per sempre. Che vita di bestia solitaria tra cani! Sempre fuori misura, fuori ordine, ammiratissimo ma anche respinto, Egli del resto niente compiva per essere ben voluto, condiscendente. Depravato nella sessualità, compagno di gente sconnessa, rissoso, omicida, fuggiasco, in una civiltà che manteneva il bello della bellezza scagliò il bello del brutto, dando a vedere volti e condizioni che i ceti eletti non volevano vedere e meno ancora che fossero posti nei quadri, e tuttavia apprezzati, richiesti. Se uno confronta Caravaggio con i pittori trascorsi sembra che il sole si sia eclissato: buio, corpi ruvidi, ceffi più che volti, e nessun abbellimento, e persino le raffigurazioni “belle” mantengono una naturalezza corrente, così nella lettura della mano, nei giocatori bari. La realtà torna a se stessa. Talvolta il buio domina e avvolge e le figure stentano ad apparire. Nacque a Milano, e fu battezzato Michelangelo, Merisi il cognome, 1571. Tornò a Caravaggio, paese originario della famiglia, al tempo della peste. Morto il padre fu messo a Bottega da Simone Peterzano che aveva lavorato con il Tiziano. Sia i pittori lombardi sia i pittori veneti (Giorgione) formarono Caravaggio. Giovinezza turbolenta, la sua, pare che per sfuggire venisse a Roma, se non venne per trovare occupazione, o per entrambi i motivi. A Roma si fa amico un pittore messinese, Lorenzo Carli, un altro pittore siciliano, Mario Minniti, collabora con un noto pittore, il Cavalier D’Arpino, e viene stimato da un ricco e appassionato d’arte, il Cardinale Francesco Maria Del Monte, che ne acquista opere e lo sostiene e lo fa conoscere. In breve tempo Caravaggio sopravanza tutti, è richiesto, le nobili famiglie, i cardinali, ne vogliono i dipinti, pur se sconvolgenti, e pur se Caravaggio è di tratto litigioso, rissoso, e oltre la legge, per questioni di donne, spesso, o brighe varie, giungendo ad uccidere, in un diverbio, e quindi condannato a morte, con possibilità di poter essere ammazzato da chiunque lo prendesse. Inizia, è il 1606, un perenne terrore di scampare alla decapitazione, con l’aiuto di famiglie nobili va a Malta, cercando di rendersi Cavaliere di Malta, così avrebbe salva l’esistenza, riesce, ma si scontra con un Cavaliere di Malta di ordine superiore, fugge ancora, Sicilia, Napoli, dove in una rissa è sfigurato, sa che il Pontefice lo sta perdonando, si imbarca per la Città Eterna, ha con sé dei quadri, scende a Palo, la nave con i quadri prosegue per Porto Ercole, tenta di raggiungerla, viene arrestato, si ammala, muore. Vi è chi afferma che sia stato ucciso dai maltesi. In tutta questa corsa da tigre inseguita dai lupi, lascia una eterna impronta di sangue, i suoi quadri, infernale e tracciata con i colori dell’inferno, nero-dannazione.