di Michele Mezza

 

Poteva andare peggio? No, rispondeva l’omino di Altan dopo la vittoria di Berlusconi del 2008. E oggi siamo alle prese con un’altra ondata di pessimismo della ragione sempre meno sostenuto da un ottimismo della volontà.

La sinistra viene battuta politicamente proprio sul suo terreno, quello delle cento città, a superarla è una destra comunque scalcagnata e sparpagliata, a trazione meloniana per altro. Il Pd si trova solo sotto il sole, senza ombrelloni o ripari. La sua ombra si allunga, con risultati a volta anche lusinghieri, ma che denunciano un isolamento politico che fra un anno, in occasione delle inevitabili elezioni politiche si trasformerà in una cocente sconfitta. I 5S si squagliano dove esistevano e non attecchiscono più dove non c’erano prima.

Sul territorio l’ondata del 4 marzo del 2018 si è del tutto esaurita, lasciando macerie. Chi li conosce li evita, e chi non li conosce non è più incuriosito da un’armata Brancaleone che pateticamente fa il verso al vecchio movimenti anti elitario dai vetri oscurati delle automobili blu di servizio con cui vengono scarrozzati ministri e assessori.

Ma il dato preoccupante per la sinistra riguarda innanzitutto l’inaridimento delle radici metropolitane. Anche nei momenti più bui, sotto l’incalzare dell’offensiva moderata sia in veste del pentapartito, nella prima repubblica, che in quella berlusconiana prima e leghista poi, con il cambio di regime, gli eredi del Pci e della sinistra cattolica comunque erano acquartierati nel tessuto urbano delle città grandi e medie. I ceti professionali, intellettuali, le prime aree sociali investite dai processi di innovazioni, gli apparati universitari e della ricerca erano trincee che assicuravano una buona base di assestamento e uno slanzio per eventuali controffensive.

Si era anche ironizzato sul partito ZTL, dei quartieri del centro storico, dove la sinistra riformista faceva manbassa e bilanciava le scoppole che prendeva in periferia.

Oggi invece i dati di Genova e Palermo, ma anche quelli di Verona, L’Aquila, Catanzaro, segnalano un rinsecchimento di radici che erano profonde. Sia dove si era governato, ma senza mutare il profilo delle relazioni sociali e tanto meno la macchina amministrativa, come a Palermo, che dopo la lunga stagione di Orlando riprende le relazioni pericolose con aree di inquinamento clientelare, oppure dove ci si affaccia dopo un dominio lungo della destra, come a Verona in cui il primato delle liste guidate da Tommasi non sembra poter reggere a una ricomposizione elettorale dei tronconi del centro destra.

Ma ancora più grave è la separazione fra uno zoccolo duro di cultura sbiaditamente riformatrice che permane nel Pd con i ceti sociali innovativi, quel popolo digitale che dall’evoluzione del terziario, all’artigianato on line, fino ai possenti apparati di ricerca e sviluppo dei distretti tecnologici, sta ripopolando le città di una nuova tipologia di produttori. Sono queste le figure che possono scomporre i grumi nei clientelari e familistici che in mancanza di una proposta più ambiziosa riempiono il quadro politico amministrativo.

La controprova l’abbiamo avuta proprio in questi giorni, a Milano, dove si sono riversati almeno 350 mila operatori e produttori dell’intera filiera dell’eleganza e dell’arredamento. Quella che il New York Times ha definito la più grande concentrazione di eleganza creativa del mondo. Questo popolo che proviene dalle aree dell’Emilia, del Veneto, ma anche dalla Puglia, dalla Campania e dalla stessa Calabria, professionalmente si ritrova in sintonia con le figure analoghe di Londra e Parigi, che dettano legge sui nuovi mercati del restyling di mobili, barche, abbigliamento e oggettistica, ma una volta rientrati nelle proprie città, rifluiscono in scelte elettorali legate alla promiscuità famigliare o di piccoli interessi.

Nessuno gli parla come ceto, se non proprio come nuova classe di creatori di ricchezza nazionale che devono contrattare e negoziare internazionalmente con fornitori e logistica.

Questa è oggi la politica che manca, il partito che manca, il Pd che non c’è: un progetto che congiunga lavori, anche i più disagiati con ambizioni, anche le più estreme lungo il crinale della creatività e della ricerca. Questo popolo si realizza e assume potenza nelle città nei territori, nei distretti. Ma se non trova interlocutori, si rinchiude nella propria autonomia e non parla con una politica a cui non ha nulla da chiedere e semmai può fargli l’elemosina di un voto per un amico, non per un programma.