di Alessandro De Angelis

Non avrà i numeri per cambiare la Costituzione senza passare per un referendum popolare, ma Giorgia Meloni avrà quelli per governare e, soprattutto, per dominare la sua coalizione. È un risultato storico, questo trionfo del centrodestra, praticamente fotografata dal titolo della Cnn sulla vittoria della "leader più a destra della storia d'Italia dopo Mussolini". Certo non ci sarà la marcia su Roma, le camicie nere e il collasso democratico, ma per la prima volta in un paese fondatore dell'Ue va al governo – e ha l'egemonia nel governo - una forza nel cui simbolo arde la fiamma.

È la fine del paradigma antifascista della Repubblica, la cui evocazione non ha avuto nessun potenziale mobilitante nell'elettorato, il che rende drammatica la sconfitta del Pd. Di fronte all'"allarme democratico", al richiamo al voto utile, un risultato peggiore di quello del 2018, non è una semplice sconfitta politica, nel gioco della fisiologica alternanza, ma una sconfitta storica, che mette in discussione i fondamenti di quel partito, la sua cultura politica, i gruppi dirigenti, e pone all'ordine del giorno non un normale congresso per scegliere il segretario, ma il tema di una rifondazione politica.

C'è solo un partito che "batte" Giorgia Meloni: l'astensionismo, mai così alto in un paese storicamente sensibile al richiamo delle urne. Il 36 per cento di astenuti (8 punti in più della volta scorsa) nell'elezione più importante degli ultimi settant'anni, dopo il Covid, con una guerra nel cuore dell'Europa, con una recessione mai vista, in un momento cioè mai così importante è la scelta del proprio destino, racconta di una "scissione" tra il paese del disagio e la democrazia, tappa finale di una crisi di sistema alla fine di un decennio segnata dal divorzio tra governi e sovranità popolare. È un pezzo di "protesta", così radicalizzata che abbandona anche il "populismo" più estremo, manifestando sfiducia e disincanto.

Questa rabbia, variamente declinata dai ceti piegati dalla globalizzazione e della crisi, è la protagonista assoluta del voto, che si esprime nell'abbandono e nella vittoria di forze che, in modo diverso, hanno interpretato lo spartito del popolo contro l'establishment, i cosiddetti "poteri forti", la "finanza internazionale". Fallita l'ondata grillina e leghista, è Giorgia Meloni l'interprete di questa nuova ondata, una in forma più radicalizzata, nel giubilo dei sovranisti europei, dalla Le Pen a Vox. Le urne archiviano, se mai si fosse posto, il tema della leadership, in una sorta di '94 sovranista in cui la destra più radicale prende quasi il doppio dei voti di Lega e Forza Italia, dato che non solo spalanca alla leader di Fratelli d'Italia le porte di palazzo Chigi, ma dà anche sicuri margini di azione sulla formazione del governo.

Detta in modo tranchant: è complicato per Matteo Salvini ottenere il Viminale con una percentuale al di sotto del dieci per cento che, anche in questo caso come per il Pd, squaderna non solo la questione della sua leadership ma anche dell'identità profonda. La Lega nazionale è fallita nelle misere percentuali al Sud, ma anche il Nord non sta tanto bene. Meno della metà dei voti del 2018, un quasi pareggio con la declinante Forza Italia (che prende la metà del 2018) precipitano il partito in una crisi acuta, di prospettiva perché porta al pettine le ambiguità di questi anni di partito di "lotta e governo" scoprendosi, né l'uno né l'altro.

La protesta, dicevano, di cui l'altro corno è il dato dei Cinque stelle. O meglio: di Giuseppe Conte, perché i Cinque stelle non ci sono più. C'è il camaleontico leader che, alla sua terza vita politica, dopo l'era gialloverde e giallorossa, risorge in versione di populismo di sinistra, in una campagna tutta contro il Pd e tutta contro Draghi. E forse, nel dato, c'è non solo l'assistenzialismo del reddito di cittadinanza ma una connessione sentimentale con quel popolo che si è sconnesso dal Pd, percepito come partito dell'élite più che degli ultimi. L'agenda Draghi, il totem implicito o esplicito di Pd e Terzo polo anch'esso al di sotto dell'aspettativa del dieci per cento, è assolutamente minoritario nel paese, a conferma, come accaduto in Svezia, che in quest'epoca di crisi e passioni tristi il buongoverno non basta.

È chiaro chi ha vinto, anzi stravinto. Meno, e sarà il tema dei prossimi giorni, quale postura assumerà la leader che, durante lo spoglio, ha ordinato ai suoi prudenza dichiaratoria e "nessun festeggiamento" per timore, evidentemente, di qualche forma scomposto di giubilo col braccio nervoso di fronte alla stampa internazionale: quale idea di Europa, quale politica economica, quale orizzonte sui diritti. Se cioè la prima donna premier della storia d'Italia incarnerà una regressione culturale, come nelle ultime settimane di campagna elettorale, o avrà, le condizioni anche numeriche ci sono tutte, la forza e la volontà di istituzionalizzare ed europeizzare ciò che con l'Europa come l'abbiamo costruita finora ha poco a che fare.