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di Gabriele MInotti

L'Italia è un Paese ormai spaccato a metà. Ci sono due Italie in lotta tra loro: una per sopravvivere ed essere libera; e una per sopraffare e prevaricare l'altra, per tenerla assoggettata. È una contesa che va oltre le appartenenze politiche e le condizioni economiche e personali. Non è una specie di lotta di classe, ma di lotta tra due visioni opposte della vita individuale e tra due idee contrapposte di Paese. C'è un'Italia che crede in sé stessa, che non si rassegna al declino, né pensa che questo sia qualcosa di ineluttabile. C'è un'Italia che vuole progredire, andare avanti, crescere, rimboccarsi le maniche e lavorare. C'è un'Italia che nella libertà e nella democrazia ci crede davvero e non soltanto quando la libertà da difendere è la propria o quando le urne premiano lo schieramento politico di riferimento. C'è un'Italia che vuole farcela, che vuole tornare a essere protagonista nel mondo, che vuole essere competitiva e che intende stare tra i grandi attori globali. C'è un'Italia che ha un atteggiamento positivo verso la vita e che, pertanto, non crede che la soluzione ai problemi che la affliggono sia piangersi addosso, lagnarsi continuamente, paralizzare il sistema produttivo, continuare a indebitarsi, a non avere fiducia in chi manda avanti l'economia – tra mille difficoltà – a istigare all'odio contro chi ha di più. C'è un'Italia che crede nel merito, nella competenza e nell'eccellenza, consapevole del fatto che non c'è futuro senza meritocrazia e impegno.

C'è poi l'Italia dei redditi di cittadinanza, dell'assistenzialismo, del parassitismo sociale, che pensa di vivere sulle spalle di chi lavora e ce la mette tutta per creare sviluppo e dare a questo Paese un futuro degno. C'è l'Italia dell'invidia sociale, che ritiene che la colpa dell'esistenza della povertà sia da attribuire all'esistenza dei benestanti, che se sono tali è perché hanno sottratto alla collettività qualcosa che invece avrebbe dovuto essere "equamente" ripartito. C'è l'Italia delle lagnanze che però non si dà mai da fare e non ci pensa minimamente a impegnarsi concretamente e personalmente perché le cose cambino. C'è l'Italia della violenza verbale e fisica, che arriva a minacciare di morte i capi di governo mettendo in mezzo anche dei bambini – o che incita a commettere azioni criminali contro i vertici istituzionali.

C'è un'Italia che pensa di migliorare la sua situazione con la "caccia all'evasore", senza pensare che questa, proprio come la ben più nota "caccia alle streghe", non è che un'isteria di massa le cui vittime sono solo persone arbitrariamente additate dalla comunità o dalle autorità come capri espiatori, in una sorta di rito collettivo volto a esorcizzare la paura e a far sì che tutti si tranquillizzino e continuino a ubbidire a testa bassa. C'è l'Italia che vorrebbe isolarsi dal resto del mondo, disinteressarsi di tutto ciò che avviene fuori, che predica un disarmo e una pace irrealistici e che non ha minimamente a cuore il prestigio e la dignità nazionale, rassegnata com'è a essere "pizza, spaghetti e mandolino". C'è un'Italia che crede che per difendere la sua bellezza naturale sia necessario fare scempio di ciò che di bello e utile ha creato l'uomo o fare violenza contro la libertà altrui di recarsi a lavoro o in qualunque altro posto si voglia. C'è un'Italia che inorridisce a sentir parlare di meritocrazia, poiché crede che tutti debbano essere uguali, livellati, standardizzati, uniformati, indistinti, parte di una fanghiglia amorfa e priva di identità.

Il futuro del Paese dipenderà da chi delle due Italie riuscirà ad affermarsi. Certo, la prima Italia è portatrice di un modello naturalmente vincente che, se lasciato libero di produrre i suoi effetti e se non ostacolato, non potrà che determinare il trionfo di questa parte di Paese. Ma se quegli ostacoli non verranno rimossi, se le energie di questa parte d'Italia non verranno liberate, allora è possibile che ad avere la meglio sia la seconda Italia: quella del parassitismo più cinico, della decrescita (in)felice, del pacifismo opportunista e ingenuo, del giustizialismo sociale e del terrore fiscale. La posta in gioco è molto più alta di quello che sembra: non si tratta solo di impedire il definitivo declino economico e politico di questa nazione, ma di difendere l'assetto democratico e liberale delle istituzioni e della società.

Già, perché libertà e democrazia non esistono senza merito, senza differenze di carattere socio-economico, senza etica del lavoro, senza senso del dovere, senza rispetto dell'altro, senza capacità di difendere la propria libertà e senza sviluppo. I fascisti di oggi – con buona pace di chi vede camicie nere in ogni dove – sventolano bandiere pacifiste, sono per l'assistenzialismo selvaggio che privando gli individui della proprietà dei mezzi e della capacità di procurarseli autonomamente crea dei nuovi servi della gleba e fanno il tifo per l'egualitarismo nemico di quelle differenze che sono l'argine più grande al potere della massa e di chi la controlla.