di Anonimo Napoletano

Nella notte tra il 2 e il 3 luglio 1983, quasi quaranta anni fa, un orribile delitto sconvolse l'Italia. Due bambine furono seviziate, torturate e uccise a Ponticelli, periferia orientale di Napoli. I loro corpi furono ritrovati semi-carbonizzati in un canalone tra le sterpaglie, nell'alveo Pollena di Volla. Le due bambine si chiavano Barbara Sellini, di 7 anni, e Nunzia Munizzi, 10 anni. Abitavano tutte e due in un palazzone di edilizia popolare nel Rione Incis. Nonostante ci siano state tre persone condannate all'ergastolo per quel gravissimo fatto di sangue, con sentenze ormai passate in giudicato, molte ombre ancora sussistono su come siano andate davvero le cose.

E nei giorni scorsi la Commissione parlamentare antimafia, dopo anni di approfondimenti, ha esplicitamente chiesto di riaprire il processo lasciando intendere che il vero assassino non sia stato ancora individuato e possa essere stato "coperto" dalla camorra. I tre operai, all'epoca appena ventenni e incensurati, che furono arrestati e poi condannati all'ergastolo dopo una lunga serie di processi, sarebbero innocenti. Giuseppe La Rocca, Luigi Schiavo e Ciro Imperante, del resto, hanno sempre respinto ogni accusa. E le prove contro di loro erano solo indiziarie. I tre, oggi sessantenni, dopo aver scontato 27 anni di carcere sono tornati in libertà e continuano a insistere sulla propria innocenza.

«Il massacro rischia di essere una storia di sole vittime, le due bambine e i tre ragazzi», ha detto la deputata M5s Stefania Ascari. A suo avviso ci sono gli elementi per chiedere la revisione: «Ritengo che si tratti di un grave errore giudiziario». La Commissione antimafia ha accertato che all'epoca vi furono gravi carenze investigative, possibili depistaggi della camorra. In particolare, si punta il dito contro chi svolse le prime indagini con metodi non sempre ortodossi.

In una conferenza stampa alla Camera, Luigi Schiavo ha detto che «in caserma persone in borghese mi hanno torturato, fatto girare sulla sedia per disorientarmi, dato da bere acqua e sale, colpito con un frustino per cavalli». «Si doveva accontentare l'opinione pubblica. Ma non avete fatto giustizia per le bambine», ha aggiunto Giuseppe La Rocca, «voglio la verità, lo dovete fare per le nostre famiglie e per i genitori delle bambine morte». La fine anticipata della legislatura ha interrotto l'indagine della Commissione, quindi non ha consentito di accertare quale sia stato il ruolo della camorra e dei pentiti, se ci siano stati depistaggi per coprire il vero colpevole. La relazione finale si propone però come un "lascito" alla prossima Commissione perché porti a compimento il lavoro di approfondimento iniziato nella scorsa legislatura.

Ma l'ipotesi che a coprire il vero assassino e a depistare le indagini sia stata la camorra non convince l'avvocato che in tutti questi anni ha assistito le famiglie delle due bambine, il penalista napoletano Alfonso Furgiuele. «La cultura camorrista, soprattutto quella degli anni '80 -ha detto  all'agenzia Ansa- stigmatizzava fortemente le violenze sui minori. Non solo. Le puniva. Chi si era reso protagonista di quella tipologia di crimine, anche in carcere doveva essere protetto dalla punizione dei camorristi». Quindi, per l'avvocato è inverosimile che la camorra abbia protetto un pedofilo, sia pure affiliato a qualche clan. E Furgiuele sottolinea anche che la vicenda è stata oggetto di diversi processi e revisioni. «Ricordo, a tutti, che ci sono stati tre gradi di giudizio e tre revisioni che sono giunti tutti alla stessa conclusione. Ovviamente se ci fossero prove vere circa un coinvolgimento della camorra in questa triste vicenda – conclude Furgiuele - sarei il primo ad attivarsi anche per la quarta revisione».

In verità, non è la prima volta che il giallo del "mostro" di Ponticelli solleva dubbi e polemiche. La tesi dell'innocenza dei tre operai è stata più volte dibattuta anche sulla stampa e da più parti sostenuta. E le piste alternative non portano soltanto alla camorra, come adombrato dalla Commissione parlamentare antimafia. Fin dall'inizio fu sospettato un venditore ambulante semianalfabeta con precedenti per pedofilia che era stato visto nel Rione Incis la sera della scomparsa delle bambine e che frequentava il luogo del ritrovamento dei cadaveri, oltre ad avere un'auto simile a quella su cui delle amichette avevano visto salire le vittime e ad aver fornito un alibi che fu contraddetto dalla moglie. Nonostante ciò, l'uomo fu incredibilmente scagionato e fece poco dopo demolire l'auto, che non era stata sottoposta a sequestro.

A parlare del massacro di Ponticelli è poi arrivato, nel 2010, un libro. Si tratta di "Viaggio nel silenzio imperfetto", edito da Pironti, un testo di memorie carcerarie scritto da Giacomo Cavalcanti, detenuto per 14 anni con l'accusa (da lui sempre respinta) di essere stato un boss del clan di Bagnoli, periferia occidentale di Napoli. Cavalcanti, che nel frattempo si è rifatto una vita al Nord e ha ottenuto la piena riabilitazione, racconta nel libro di aver appreso in carcere che il vero autore del massacro di Ponticelli sia stato un giovane vicino di casa delle bambine, che soffriva di disturbi mentali e che poco tempo dopo si suicidò.

Il profilo disegnato da Cavalcanti combacia con la figura di Luigi Anzovino. Abitava nel palazzo di fronte a quello delle due vittime del "mostro" e quattro mesi prima del massacro era stato accusato di "atti di libidine violenta" nei confronti di un ragazzino di 13 anni. Lui aveva all'epoca 19 anni. Circostanza inquietante: fu proprio suo fratello minore il primo e più importante testimone d'accusa contro i tre operai ventenni, e in particolare Giuseppe La Rocca. Lo stesso giorno dell'arresto dei tre operai, nel settembre del 1983, strana coincidenza anche questa, Luigi Anzovino aggredisce la sorella appena diciottenne, tenta di violentarla e l'accoltella con undici fendenti, ma la ragazza si salva (da notare che anche le due bambine di Ponticelli, rivelò l'autopsia, furono seviziate con un'arma da taglio).

Accorrono i carabinieri e arrestano Anzovino, che però in carcere rimarrà poco più di due anni. Esce per decorrenza dei termini e viene mandato in soggiorno obbligato a Polla, in provincia di Salerno. A gennaio del 1986 scappa. I carabinieri lo trovano a casa dei genitori, bussano alla porta ma lui si getta dalla finestra e muore. Sembrerebbe lo stesso personaggio della storia raccontata nel suo libro da Giacomo Cavalcanti, che l'avrebbe appresa in carcere da altri detenuti di camorra. Solo coincidenze?