di CRISTOFARO SOLA

La leggenda metropolitana secondo la quale nelle democrazie mature della post-modernità la differenziazione ideologica tra la destra e la sinistra non esista più è una balla colossale. Il muro che separa due visioni contrapposte di società permane ed è nient’affatto scalabile. Fortuna che il muro c’è. Anche nelle società fluide resistono idee e valori declinati in modo confliggente. Vale per l’Occidente e vale per la nostra Italia. Non la pensiamo tutti allo stesso modo. E guai se lo facessimo. C’è differenza nell’essere di sinistra rispetto all’essere di destra. Di là dagli anatemi che la sinistra, tronfia nella sua autoproclamata superiorità morale, lancia con disperante monotonia contro il male assoluto, cioè la destra, esiste una realtà che fattualmente s’incarica di marcare con nettezza la separazione dei due mondi antitetici.

La virtuosità della forma democratica starebbe – il condizionale è d’obbligo in Italia – nell’assegnare al popolo il potere sovrano di decidere, periodicamente, a quale paradigma di società affidarsi. Dopo anni di forzatura del processo democratico che ha consentito allo sconfitto – il campo della sinistra – di governare il Paese, sembrerebbe – ancora una volta occorre il condizionale – che questa volta le cose possano tornare a posto e il popolo possa decidere in libertà a chi consegnare il timone del proprio destino. Ma ciò non potrà avvenire a scatola chiusa, per un bizzarro atto di fede nell’uomo, o nella donna, della Provvidenza di turno. La scelta dovrà fondarsi sull’adesione consapevole a un’offerta programmatica credibile e realizzabile.

Il barometro degli umori degli elettori indica buon tempo dalle parti del centrodestra mentre dà burrasca nel campo della sinistra. Ragione per la quale, per economia di tempo e di noia, proviamo a occuparci soltanto di ciò che promettono i “probabili” lasciando andare alla deriva i piani di quelli che al momento sono gli “improbabili”. Abbiamo cominciato a esaminare l’accordo quadro di programma del centrodestra, partendo dalle risposte che la coalizione ha approntato per corrispondere alle istanze degli italiani, seguendo un ordine di priorità. Ieri l’altro abbiamo analizzato il capitolo, bollente, dell’autosufficienza energetica giudicandolo insufficiente. Adesso tocca di esaminare le proposte sulla fiscalità, argomento sensibilissimo per i cittadini.

Il centrodestra ne parla al punto 4 dell’accordo di programma. L’incipit è una dichiarazione d’intenti necessaria: Riduzione della pressione fiscale per famiglie, imprese e lavoratori autonomi. Deve essere chiaro a tutti: chi vota centrodestra sceglie un modello per il quale le tasse vanno abbassate e, di conseguenza, maggiore ricchezza deve essere liberata perché resti nella disponibilità dei privati. Ciò vuol dire avere uno Stato che abbia meno risorse per intervenire nella vita dei cittadini? Evidentemente sì. È un bene o un male? Per chi appartiene ideologicamente al lato destro del campo è un bene; per quelli che stanno sulla sponda opposta, un male. Questa si chiama contrapposizione inconciliabile. Evviva l’inconciliabilità!

Ma non è finita con le buone intenzioni del centrodestra. Al secondo punto si afferma: No a patrimoniali dichiarate o mascherate. Si scrive patrimoniale e si legge tassa sulla casa. Il centrodestra considera il tetto sotto cui vivere e costruire la propria storia personale e familiare, che la grande maggioranza degli italiani ha conquistato con sacrificio e sudore, un bene sacro. Per questa ragione lo valuta intangibile rispetto alla pretesa dello Stato di tassarlo. È corretto fare della casa un totem? Per chi è di destra è sacrosanto. La sinistra, alla quale restano nel Dna tracce genetiche di comunismo, non avverte l’esigenza di riconoscere la solidità dell’intreccio individuo/famiglia/casa, radicato nel sentimento ancestrale dell’appartenenza dell’essere umano a un luogo che profila la sua identità. Declassando il valore meta-economico della casa a bene ordinario, viene spontaneo alla sinistra ritenere giuste e funzionali le imposizioni fiscali di cui gravarle. E gli elettori, da che parte stanno? Lo sapremo presto.

Nel programma si parla di pace fiscale. È giunto il momento di squarciare il velo d’ipocrisia che avvolge da troppi anni questo spinoso problema. Il principio è: tutti devono pagare le tasse. Encomiabile precetto. Ma cosa si fa quando un contribuente, per mancanza di liquidità, non riesce ad adempiere ai suoi doveri verso l’Erario? Lo si condanna a vivere da reietto senza concedergli alcuna chance di risalire la china o gli si dà una mano a rimettersi in piedi per tornare in futuro a essere un contribuente specchiato? Pensate che sia un problema che riguardi una manciata di furbetti e di poveri cristi? Non è così, la mancata riscossione delle tasse è un iceberg che non è ancora affiorato in superficie in tutta la sua devastante dimensione. Il direttore dell’Agenzia delle Entrate, Enrico Maria Ruffini, lo scorso aprile, in un’audizione presso la Commissione parlamentare sul federalismo fiscale, ha dichiarato che le tasse non riscosse ammontano a 1.100 miliardi di euro; riguardano gli ultimi 22 anni; il magazzino delle tasse non riscosse si movimenta ogni anno con 70 miliardi di crediti da riscuotere e 10 miliardi riscossi; sono stati censiti 130/140 milioni di cartelle esattoriali e circa 16 milioni di contribuenti iscritti a ruolo.

I numeri sono da emergenza sociale. Bene, dunque, che il centrodestra ponga la questione come una priorità del futuro governo. Tuttavia, bisogna intendersi su quali strumenti adoperare per essere efficaci, visto che quelli ai quali si è fatto ricorso finora, come i vari step della Rottamazione delle cartelle, non hanno dato i frutti sperati. Altro punto programmatico che richiede chiarezza è quello relativo alla Flat tax. Che cos’è? Si tratta di un regime forfettario a tassazione agevolata che prevede l’applicazione di un’aliquota al 5 per cento o al 15 per cento fino ai 65mila euro di ricavi da vendite. É evidente che, sul punto, i partiti della coalizione abbiano raggiunto un compromesso, partendo da posizioni dissonanti. In concreto, il provvedimento bandiera della Lega, e in qualche misura di Forza Italia, verrà circoscritto alla Partite Iva fino a 100mila euro. Almeno in una prima fase alla quale dovrebbero seguire due step successivi. Questo lo dice Matteo Salvini ma nel programma non c’è scritto nulla in tal senso.

C’è invece inserita la declinazione di Flat Tax che piace a Fratelli d’Italia. Si tratta della tassa piatta incrementale, applicabile ai maggiori redditi conseguiti rispetto all’annualità precedente. Punto. Non è molto ma è qualcosa, se si considerano i benefici che tale sistema applicato alle partite Iva reca: assenza totale dell’Iva, sconto del 35 per cento sui contributi Inps per artigiani, fornitori di servizi e commercianti, gestione più snella, fatturazione elettronica facoltativa. Altro enunciato di principio: Semplificazione degli adempimenti e razionalizzazione del complesso sistema tributario. Qui non servono commenti. Se la si realizza è la rivoluzione liberale che gli italiani attendono da trent’anni. Se non se ne fa nulla è la solita “bufala” propagandistica che non piacerà agli elettori. In ultimo, il programma prevede alcuni interventi solo in apparenza minori ma che hanno un grande valore simbolico, oltre che recare un beneficio pratico agli italiani. È il caso della promessa programmatica del centrodestra, una volta al governo, dell’inversione
dell’onere della prova fiscale da porre a carico dello Stato e non del contribuente, come avviene tutt’oggi, e della piena e immediata compensazione dei crediti e dei debiti verso la Pubblica Amministrazione.

Nel capitolo dedicato al Fisco c’è molto. Altro si sarebbe potuto aggiungere. Comunque, è apprezzabile lo sforzo di tenersi allineati alla realtà, evitando di fare promesse insostenibili. Per questo motivo il nostro voto è: 7. Ben oltre la sufficienza.